Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

GEOMETRIE VITALI

GEOMETRIE VITALI

Testo di Valerio Dehò

Carlo D’Orta ha “bruciato” i tempi di una passione che è da diversi anni ormai una attività con caratteristiche professionali e riconoscimenti da parte del mondo dell’arte. Possiamo definire sinteticamente la sua evoluzione come un passaggio dal “realismo astratto” alla “fotografia plastica”, quest’ultima che ha avuto una sua chiara esemplificazione con la collaborazione con Andrea Ciresola.

Il suo lavoro complessivo assume importanza perché ha sempre sentito come proprio e fondante il rapporto con la realtà. Questa però viene restituita come attraverso una visione, come un elemento non di rappresentazione quanto di interpretazione. L’astrazione purifica le immagini, ci sottrae al “rumore” di una realtà che i media saturano di immagini. Il “Realismo astratto” che D’Orta agli esordi ha condiviso con Albano Paolinelli e Danilo Susi, è stato un momento di sintesi di una visione del mondo partecipata, profonda ma anche non totalmente assorbente. L’arte, soprattutto quella fotografica, ha una prospettiva che crea il contatto con i costituenti della realtà, con la sua struttura materico-molecolare, senza per questo rinunciare alla poesia e all’emozione.

Carlo D’Orta poi ha costruito una propria indagine sugli spazi architettonici e su quello che vi è costruito attorno, mostrando il significato delle relazioni spaziali e dei contrasti cromatici, attraverso angolazioni nuove e sorprendenti. Il suo sguardo analizza e relaziona linee, vuoti, colonne, mettendo sempre in evidenza anche i riflessi sulle grandi superfici vetrate dell’International style che, per fortuna, sta lentamente scomparendo. La sua ricognizione “realistica” si è prodotta in tutto il mondo dall’Europa alle Americhe all’Asia.
Per scelta tecnica non interviene quasi mai in postproduzione, salvo leggeri interventi in fase di stampa per sottolineare dettagli e contrasti di colore. Possiamo affermare che tutto il lavoro di D’Orta è una ampia e inesausta riflessione sul concetto di moderno, sulla razionalità dell’architettura e del suo sostrato culturale, sui suoi limiti, ma soprattutto sulla sua capacità di elaborare un senso di ordine e di equilibrio che resta fondamentale per qualsiasi società.
La sua “fotografia plastica” interpreta la purezza delle linee, le superfici specchianti dei palazzi, i volumi e le ombre, le ortogonalità rigorose, mettendo in evidenza gli scarti, le differenze, le lacune. Non è una fotografia celebrativa, tutt’altro. Come ho già avuto modo si scrivere, “Carlo D’Orta non è un fotografo documentario. I suoi spazi architettonici, città edifici industriali, colgono segni imprevisti, hanno un’organicità che deriva dalla scelta di considerare la città un paesaggio, non un luogo chiuso ma aperto sull’ambiente.“

Andrea Ciresola traduce in 3D le fotografie di D’Orta in una simbiosi creativa molto interessante perchè ricostruisce la tridimensionalità superando il limite legato dalla fotografia. Il pittore e scultore veronese riesce a creare delle opere plastiche astratte a partire dalle fotografie di D’Orta, in particolare dalla serie BIocities che si presta perfettamente per l’operazione.
Usando una selezione di dettagli delle foto, Ciresola realizza in acciaio dipinto con vernice acrilica delle opere in cui viene restituita la tridimensionalità in forma scultorea diversa da quella originaria e architettonica. La tridimensionalità viene recuperata, ma completamente e profondamente diversa da quella del luogo architettonico oggetto della fotografia.
Così il dialogo tra i due linguaggi – fotografia e scultura – genera qualcosa di inedito. Già D’Orta era intervenuto con plexiglass e vetro a scomporre le foto per farle diventare delle installazioni. In questo caso Ciresola, artista iperrealista ma aperto anche al linguaggio dell’astrazione, riesce a creare realmente una trasposizione e una reinvenzione dell’immagine fotografica. Per questo la serie “(S)Composizioni” ha il doppio titolo di “Metafora della Vita”, perché diventa rappresentazione di come la nostra stessa personalità nasca dalla composizione e ricomposizione delle esperienze precedenti.

Stilisticamente le analogie sono con opere dell’astrazione geometrica classica, del cubismo fino alle recenti esperienze di Peter Halley o Peter Schuyff. Ha scritto Jacques Derrida nella “Verità in pittura”: “Togliete ad un quadro ogni rappresentazione, ogni significanza, ogni tema e ogni testo, come che vuol essere detta, toglietegli anche tutto il materiale (la tela, il colore) … cancellate ogni disegno diretto ad un fine, …il suo sottofondo sociale, storico, economico, politico, ecc…, e che cosa resta? La cornice, l’incorniciatura, giochi di forme e di linee che sono strutturalmente omogenee alla struttura della cornice.” L’astrazione cosi richiama quel principio di libertà su cui andrebbe fondata l’arte, estremizzando la sua divaricazione dal pensiero cognitivo, ma aprendo una finestra sul rapporto tra sensibilità in eccesso e apertura del concetto.

Isa Gabria lavora liberamente nel vasto territorio dell’astrazione da quella informale, più libera e emozionale, verso quella strutturata in segni, che in alcuni casi ricordano i “pettini” di Capogrossi. Uno spaziare in piena libertà che sembra sondare le possibilità del linguaggio, che fa una sorta di check sull’astratto come linguaggio universale e anche più immediato di tanta figurazione contemporanea. Isa Gabria sembra evitare di praticare un’arte algoritmica, ripetitiva, costruttivista. Preferisce sempre conservare quel margine di soggettività e di spontaneità che la sua visione della pittura sembra avere, quella variabilità dovuta a esigenze psicologiche o all’emozione del momento.

Carlo D'Orta


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1 Marzo 2024

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