Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

Blu Blu

L’uomo è sempre stato un cacciatore di blu, prima ancora di parlare di un pigmento lo ha catturato con un semplice sguardo

Dal celeste all’azzurro e al turchino le parole della nostra lingua descrivono le percezioni del blu, un colore che nasconde secoli, anzi millenni, di storia e di commerci. Un colore che distende e rilassa, che agisce sulla fisiologia del corpo ed è per questo ingrediente fondamentale della cromoterapia. L’uomo è sempre stato un cacciatore di blu, prima ancora di parlare di un pigmento lo ha catturato con un semplice sguardo, alzando gli occhi al cielo, guardando l’orizzonte dei laghi e del mare o una semplice pozzanghera dopo le piogge del tardo inverno. Nel mondo occidentale le statistiche gli riconoscono quest’indole forte ma non aggressiva, che rassicura e sopisce le tensioni: le Nazioni Unite e la loro forza di pace, i caschi blu, l’UNESCO, la NATO e l’Unione europea hanno scelto d’identificarsi in questo colore sottolineando la vocazione a garantire la pace in un mondo fluido, multietnico e multirazziale.

Blu è il cielo e così lo vedevano i cittadini romani riquadrato dalle architetture nei fori, nell’occhio zenitale del Pantheon, riflesso in tutte le fontane dei laghetti o dei ninfei: dove c’era potere il governo dell’acqua ne era il riscontro diretto. La civiltà classica aveva già colto, con indubbio pragmatismo, la relazione stretta fra dominio delle risorse e ostentazione della forza: il blu frutto dell’ingegneria idraulica era una luccicante e fresca opera d’arte, per bellezza, carica simbolica e capacità di trasmettere significati. Ritroveremo questo binomio, acqua/stato, nei momenti di massima vigoria politica e militare: il National Mall a Washington D.C., Venezia e San Pietroburgo, Camberra e la città d’argento Chandighar, progettata da Le Corbusier, dove oltre l’azzurro del suo lago simbolo la metropoli si slancia nel cielo con la La Main Ouverte, un’enorme scultura metallica progettata per ruotare nella direzione del vento. La storia dell’arte come ha saputo saziare questa atavica fame di freschezza e di blu?

Le opere blu apparentemente più facili e dirette sono i monocromi dell’artista francese Yves Klein che alla fine degli anni cinquanta mescolò una resina industriale, Rhodopas, al pigmento oltremare creando un colore particolarmente intenso, capace di farsi penetrare dalla luce invece di rifletterla. Klein, nizzardo, era figlio di pittori ma anche del proprio tempo che piangeva i milioni di vite inutilmente spese per sostenere simboli, valori, ideali nella carneficina della grande guerra. Nella sua breve vita, fu stroncato da un infarto a trentaquattro anni, scrisse libri senza parole, dipinse quadri senza figure, compose musica fatta di una sola nota, come la Monotone Symphony. L’arte, come la cultura, per essere tale non doveva più raccontare, affabulare, convincere: ogni dogma aveva creato disastri, dal mito di Verdun alla narrazione antisemita, dalla vittoria mutilata al vendicativo congresso di pace. Il colore puro avrebbe parlato senza bisogno di retorica, così come l’odore del sangue, il filo spinato e la terra putrida non cercavano commenti ma solo rispetto. Il blu oltremare in sospensione nella resina fu brevettato come IKB International Klein Blue, prodotto dell’industria e dell’ingegno ma anche quintessenza della storia dell’arte. Perché? Per il semplice fatto che l’oltremare è un caposaldo della cultura, frutto di rotte commerciali millenarie, di complesse tecniche d’estrazione, legato negli affreschi da colle esattamente come l’IKB. Per comprendere l’arte è necessario guardare ai pigmenti e alla loro storia: i quadri ne sono il riflesso, consapevole e contingente.

Klein comprese che l’emozione più intensa di molti cicli di affreschi non era data dall’elemento narrativo ma dalla vibrazione interiore suscitata dall’immergersi nella luce del lapislazzuli, ne colse l’essenza e la riconsegnò al mondo dell’arte. Per comprendere la radice storica della sua arte guardiamo quindi a uno dei blu della tavolozza tradizionale: più prezioso dell’oro, estratto da pietre azzurre provenienti dalla terra degli afghani. Il suo commercio precorse e segnò alcuni rami della futura via della seta: da sette millenni il lapislazzuli arriva faticosamente nel bacino Mediterraneo, prima con i Sumeri e gli Egizi e per tutta l’antichità, pietra dura, simbolica e di gran pregio, detto lapislazzuli reale se intenso e privo di striature, lavorato dagli orafi e collezionato dai Medici di Toscana. Solo nel medioevo si comprese come estrarne il pigmento blu: con un paziente lavoro d’inceratura, abrasione e lavaggio in soda caustica. Colore degno della divinità e delle grandi dinastie, impossibile da usare nell’affresco per le reazioni chimiche che lo avrebbero compromesso era steso con colle per dare il massimo risalto alle scene bibliche: dalla Cappella degli Scrovegni a quella Sistina, al sontuoso manto della Vergine nella pittura su tavola o tela. Il blu oltremare è il paradigma assoluto della bellezza regale, della sacralità, dell’epifania divina; ma perché ha questo nome? Per l’origine: viene da lontano, oltre il mare; per secoli è stato la merce più preziosa della marineria veneziana. L’IKB non è solo arte contemporanea ma la quintessenza della nostra relazione con l’assoluto attraverso il colore. Un’opera vibrante di luce metafisica e densa di storia.

Essere immersi nella luce azzurra che attrae e sembra schiudere l’infinito, la pace. Un modello che torna e si ripresenta nella storia dell’arte, dalla tarda romanità del mausoleo ravennate di Galla Placidia al complesso di Villa Serena, a Città Sant’Angelo. E’ sempre sull’Adriatico ma più meridionale, verso Bisanzio: la Cappella e la Sala del commiato, un’opera magistrale di Ettore Spalletti. L’artista si appropria della sezione a croce greca ripetendola negli infissi, nel paliotto d’altare, nel volume complessivo dello spazio, ribassato da pannelli fonoassorbenti che rimandano a un origami, all’aprirsi di un fiore di loto. Ed è proprio dietro l’altare che si palesa la forma primordiale, come quelle indagate per l’intera vita dall’artista abruzzese. Un cubo, velo di luce immateriale nel quale si celano confessionale e sacrestia; un cubo che sembra slanciarsi e lievitare per il contrasto con un soffitto leggermente rialzato, per il moto ascensionale di una croce latina in perfetto equilibrio visivo sulle linee di forza del quadrato blu.

Oro e azzurro, regalità e sacralità: quando avviene il passaggio che dalle icone, dai mosaici, dall’oriente cristiano porta il blu non solo a scorrere nelle vene dell’aristocrazia ma a identificarsi nei simboli stessi della sovranità secolare? E’ il sangue delle crociate a farsi tramite portando un nuovo blu nell’immaginario occidentale. Per oltre mille anni nella lontanissima Cina, quando Roma ancora non era fondata, le manifatture imperiali producevano un pigmento di rame e bario, il Blu Han che ci rimase sconosciuto. Il Medio Oriente fece invece da tramite per una nuova scoperta della vetreria: l’aggiunta di cobalto che donò alla trasparenza turchina una tonalità intensa e vellutata. La porta di Ishtar a Babilonia, i vasi soffiati della Mesopotamia esprimevano potere ed eleganza, indelebile ricordo per i nobili combattenti al ritorno dalla Terra Santa. L’abate benedettino Suger riedificò Saint Denis con archi acuti e rampanti a cingere e sostenere vetrate immense dove sacro e monarchico convivevano brillando della medesima luce. E’ il dodicesimo secolo, per Re Luigi VI l’Orifiamma in Saint Denis diventa lo stendardo reale: la lancia d’oro di Costantino e il martirio di San Dionigi. Un secolo ancora e Re Luigi IX, il Santo, farà edificare la Sainte-Chapelle, reliquiario di vetrate blu per custodire la Corona di spine e un frammento della Vera Croce.

Il vetro blu talvolta si macina, ridotto a polvere finissima, è detto smalto e sopperisce al costo troppo alto dell’oltremarino, l’adoperavano i frescanti ma anche Tintoretto, Veronese, El Greco, Van Dyck, Rubens e Rembrandt sebbene l’olio ne smorzasse un poco lo splendore. L’uso dello smalto ci porta verso l’arte moderna, dove prevale l’attenzione verso il colore rispetto alla rarità del pigmento. L’artista francese Pierre-Yves Le Duc ha dipinto anche blu su blu, unendo spiritualità del colore, simbologia dei numeri e un segno così smaterializzato da sembrare astratto. Dopo la laurea in letteratura italiana alla Sorbona, affascinato dalla sensualità del mondo mediterraneo, si trasferisce a Napoli avvicinandosi all’arte di Alfredo Bovio di Giovanni, ciociaro, istintivo, pregno di un’irruenza preclassica e italica. Le Duc coglie la fisicità depurandola dalla narrazione, elevandola a tempio del sacro; trasforma l’intimità femminile in un gesto grafico, in linee che la mano traccia perché la mente conosce e ripete percorrendo ogni curva del pube e del corpo. Il blu aiuta a togliere il vivo realismo de “L’origine du monde” di Gustave Courbet, dipinto antesignano della ricerca di Le Duc. La carne diventa pigmento, il colore si fa trasparenza polimaterica, un leggerissimo velo di seta, una georgette blu di Persia, raccoglie la luce e la fa vibrare. Ne “Il tempio”, così come fu ne “Il Cenacolo” a Napoli, si ripete l’assonanza col simbolico numero dodici: tante sono le opere blu che dialogano con l’irruenza dell’unico dipinto rosso, un angelo decaduto, l’inizio della grande epopea umana. La forma del Trittico, l’assonanza nel titolo “Crocifissioni sul Monte di Venere”, l’iconografia del martirio, il colore azzurro delle vetrate capetinge, la luce che si materializza sono tutti elementi che rimandano al rito ed evocano per contrasto, in uno slancio di purezza e lirismo, il mistero della vera sacralità: il corpo, capace di creare, accogliere e generare la vita.

Se guardiamo alla storia del pigmento, il colore blu sembra esclusivo e ristretto per censo. Questa è una visione distorta che non ci spiega la tuta dei metalmeccanici, le uniformi militari, la diffusione dei blue jeans. Il popolo viveva solo con l’azzurro della natura? Era così raro per le masse imbattersi nella bellezza “celestiale”? Tutt’altro. Vestire di blu è sempre stato usanza barbara, da disprezzare. I germani si rendevano temibili in battaglia imbrattandosi di blu, da vecchi se ne tingevano i capelli. Le vesti dei lavoranti erano tristemente azzurre, di un colore scialbo, senza brillantezza. L’Europa d’ogni giorno tingeva di blu i propri stracci usando la pianta di guado macerata nell’urina umana e quando la Chiesa Tridentina decretò i colori peri paramenti sacri, escluse il blu perché troppo legato al popolo. La Francia era riuscita a fare del guado una tintura accettabile, era detto pastello, si produceva a Tolosa ma non reggeva il confronto con una pianta d’oriente: l’indaco. Sempre dalle vie della seta questo prodotto giungeva in occidente, lungo il percorso lo usavano i Tuareg, gli uomini blu del deserto. Ci furono quasi tre secoli di guerra commerciale, tra spagnoli, olandesi e inglesi che cercavano di smerciare l’indaco da loro prodotto nelle colonie mentre Francia e Germania vietavano le importazioni per sostenere il blu pastello ricavato dal guado. Nel 1737 questa forma di protezionismo capitolò ma fu un successo effimero perché un secolo dopo dalle manifatture del continente l’indaco sintetico e il blu di Prussia invasero i mercati, aprendo la strada a un colore brillante ed economico, stabile e moderno. La chimica industriale aveva trionfato sull’artigianalità del pigmento e improvvisamente un azzurro vivace colorò il mondo della guerra e del lavoro.

Abbiamo finalmente chiarito i limiti di questa breve ricerca: ci sono un prima e un dopo in Occidente nella storia del blu. Un passato di circa 7000 anni dove le masse lo ricavavano attraverso piante locali mentre l’élite usava pigmenti dell’Asia, minerali o vegetali ma sempre rari e preziosi. Poi improvvisamente due secoli fa tutti lo ebbero a disposizione, sintetico, brillante e stabile. Da quel momento l’ingrediente divenne secondario perché tutto ruotava attorno all’emozione: tranne ricerche particolari legate alla materia come quella di Yves Klein, il blu diventa uno fra i tanti colori della tavolozza. Il blu comincia a dividersi in una raggiera di gradazioni dai nomi evocativi che si richiamano alla storia e gli artisti ne assaporano con grande libertà lo spettro di emozioni in grado di suscitare. Vediamo assieme alcuni usi dei blu nell’arte moderna e contemporanea, evidenziandone subito tre costanti: l’uso di questo colore freddo crea comunemente un’impressione di sfondamento, di libertà; la sua predominanza evoca sensazioni di pace e rende più vibranti e malinconiche le tinte calde che gli si accostano; alcuni artisti accentuano il ricordo dei pigmenti storici evocando così oltre la mera percezione intense suggestioni culturali.

Le gradazioni di blu, come la contemplazione del mare, inducevano alla malinconia, sostenevano e amplificavano lo spirito in un momento di sconforto. Così Pablo Picasso, poco più che ventenne, esprimeva con il colore lo scoramento per il suicidio dell’amico poeta Carlos Casagemas, sodale nelle notti della Rinascenza catalana ai Quattro gatti, Els Quatre Gats, il locale dei modernisti di Barcellona. Sono anni di creatività ricordati come il Periodo blu, un’esplicita dichiarazione del giovane artista andaluso sulla capacità dei colori freddi di scuotere e suscitare emozioni.

Trentenne e molto legato al simbolismo cromatico della rigorosa e guerriera società tedesca il bavarese Franz Marc contestò la resa troppo realistica in voga tra i pittori del Reich; sosteneva che il colore nell’arte nulla avesse a che fare con l’illuminazione naturale. Il blu era per lui principio mascolino e spirituale, il giallo sensuale e femminino, il rosso un turbine emotivo da dover superare. Abbandonò la già moderna Neue Künstlervereinigung München (NKM) per fondare Der blaue Reiter ma la sua ricerca fu interrotta a Verdun, nella mattanza sul Fronte occidentale.

Vassily Kandinskij, russo dall’animo inquieto di estrazione e formazione borghese, violoncellista e giurista, legato al Reich per i commerci della famiglia tornò a Monaco non più giovane per studiare arte affascinato da quanto i colori, oltre la rappresentazione, possano trasmettere. Rifugiato in Svizzera allo scoppio della Grande Guerra poi a Mosca durante la Rivoluzione bolscevica abbandona incarichi pubblici e torna in Germania per insegnare al Bauhaus. Ormai libero dalla figurazione associa azzurro e blu ai suoni di flauto e d’organo, ne assapora la forza centripeta, la capacità di attrarre e spingere chi li guarda all’abbandono.

La canadese Agnes Martin, emigrata giovanissima negli States per approdare poi nella Lower Manhattan dei continui traffici portuali, analizzò con meticolosa attenzione la matericità gessosa delle superfici e l’impatto che le campiture cromatiche evocano all’immaginario di chi le osserva. Lontana dalla gestualità dell’espressionismo e dalle ripetizioni sistematiche apprezzate dai minimalisti, Agnes Martin sente nella geometria e nel colore una forza spirituale e trascendente. Il blu in quest’opera afferra la mente trasportandola in universi tanto logici quanto sconosciuti.

Giuseppe Modica, artista della Sicilia orientale, dipinge la superficie tattile delle sue tele come luogo in cui sedimentare la memoria e i piatti orizzonti di mare della natia Mazara del Vallo. Visioni di una realtà mentale: un Mediterraneo pulsante di vita e commerci fatto di luci lontane, osservate dal grembo protettivo di uno spazio chiuso. Sono giochi di trasparenze, di rimandi e meditazioni sul contrasto fra natura e civiltà. Blu perché è il colore della riflessione, di una consapevole lontananza fisica e del continuo ritorno al porto delle origini, casa dell’anima e punto di ripartenza per ogni navigatore solitario.

L’artista cinese Diana Mei Hing Lo abbina il colore a un vissuto. Usando una tinta allude a una realtà: ne ricrea l’emozione. Secondo i principii del ch’i, la sua arte è energia: si espande nel tempo oltre l’opera, vibrando come onda vitale. Quando dipinse le scarpe da ballo del primo ballerino del Balletto Mariinsky – Vladimir Shkliarov – per La casa de la danza di Logroño, disse: “Ho usato i colori del cielo turchese chiaro, il mare blu intenso, il verde smeraldo dei boschi in primavera, l’audace arancione della gioia di essere, il viola appassionato, un pizzico di terre color cannella e, alla fine, del semplice muschio verde chiaro”.

Molto diverso era il ragusano Piero Guccione, assistente di Renato Guttuso all’Accademia di Roma e poi titolare di diverse cattedre di pittura, che ha una pennellata azzurra lirica e intimista. Frequentatore assiduo della borgata marinara di Sampieri, nella Sicilia calcarea e bianca che guarda verso l’Africa, fissa nelle sue opere l’epifania della luce. Cielo e mare, incorporei, trasparenti, si fondono in un unico corpo lucente che raccoglie i segni dell’universo. La curva della luna al tramonto, il lento fluire delle maree, l’acqua in un giorno di bonaccia sono solo in apparenza paesaggi, in realtà meditano sul mito, sul mondo indifferenziato delle origini.

Quando il blu si smaterializza e diventa radiazione luminosa, dimenticando ormai le fatiche e i costi dei commerci, le miniere, le industrie chimiche e i tintori, dal pigmento si passa al colore. Pantone, l’azienda leader degli standard cromatici annuncia come Color of the Year 2022 Very Peri, una tonalità di blu pervinca con un sottotono rosso violaceo. Fedeltà e costanza del blu, energia ed eccitazione del rosso sono miscelate per diventare il colore dominante nel mondo digitale. Pantone risolve, dopo un secolo, la sfida posta da Franz Marc: superare il rosso dandogli stabilità emotiva. Di contro sono molti gli artisti che si richiamano invece ai valori culturali assunti dal blu nella sua millenaria convivenza con l’uomo.

Gaetano Barbarotto a sua volta siciliano ma di Palermo conosce e frequenta i fondali rocciosi di scogliera, vuole dipingere equilibrio e piacere: riflette con questo la propria terra opulenta e sazia di vita. Sceglie il mare perché è blu, usa tecniche miste e foglie d’oro, ricorda le forme leggere dei pesci: tutto nel dipinto evoca, ma nulla racconta. L’azzurro è un impasto denso, quasi astratto, gli animali dalle pinne d’argento si colorano del tramonto, sono corpi che non appartengono ad alcuna specie. L’impatto è araldico, come di una villa corrosa dal tempo. E’ pittura di emozione, interiore e nostalgica più vivida e intensa di ogni realtà.

Alessandro Sarra, artista romano, nella serie Talismano si collega alle radici storiche della pittura in blu: il lapislazzuli già venerato nell’Egitto antico quale amuleto diventerà poi quel colore che Sarra usa guidandolo sulle mestiche bianche. E’ un’azione premeditata, non casuale: appartiene prima alla mente e poi, attraverso il gesto, la densità, lo scorrere, il distendersi e il sedimentare del colore, quel pensiero prorompe nel mondo fisico. Il blu oltremare si confronta così con la massima luce, che non è fondo ma spazio costruttivo. Il colore più nobile si fa materia, si racconta, esce dalla storia per dialogare con il presente.

Il richiamo colto ai blu più rari e preziosi, segno esclusivo di prestigio e solidità, è ben presente nel Flammarion dello scultore abruzzese Oliviero Rainaldi. Opera di arte pubblica realizzata in acciaio, commissionata a Torino da Italgas, si articola in più gruppi legati da linee virtuali ma evidenti, come una costellazione, da cui il nome tributo all’astronomo Camille Flammarion, studioso delle geometrie visive dei corpi celesti. Sono lisce colonne sormontate da fiamme antropomorfe, continui richiami al logo aziendale rendono la scultura identitaria, mentre il blu cangiante ne sottolinea autorevolezza, forza e sobrietà.

Per finire torniamo sul blu di Prussia che scorre a fiumi nell’inchiostro delle penne a sfera. Rappresenta il passato prossimo: è fisico, sottilmente materico, stabile, di sintesi e industriale. Non è il remoto dei pigmenti naturali, non è il futuro dell’immagine digitale. Un colore democratico che usiamo tutti, ogni giorno, firmando. Si può usare con arte, pazienza e maestria per interrogarci sul domani, sulle radici e sull’identità, come ha fatto con la penna Bic blu l’artista greco Giorgos Tansarlis, tracciando un universo di reticoli, trame e tessuti evanescenti in cui si materializzano antiche battaglie, scene di degrado e frattura sociale, solitudini virtuali, disperate difese da attacchi chimici, nevrosi consumistica e sete di potere. Una scena interna, raccolta nel grande corpo delle moltitudini spaesate dove aggressione e disprezzo, ambiguità e violenza, s’innervano e crescono nell’opera.

15 Gennaio 2022

Massimiliano Reggiani

Massimiliano Reggiani, emiliano ma da anni in Sicilia, si è laureato in Giurisprudenza e in Filosofia a Parma, in Scenografia all’Accademia di Bologna. Considera la comunicazione visiva connaturata alla specie umana e cerca nell'arte il riflesso del continuo mutare di valori e culture. Scrive di linguaggi contemporanei sulla propria pagina Facebook Critica d’arte.

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