Nessuno si augura il dolore del simile ma a tutta un’altra storia appartiene quello del diverso, perché il dolore genera sofferenza e questa scuote il mondo delle emozioni. Provare empatia, godere, restare indifferenti, farsi una ragione del dolore: sono tutte possibilità che – di fronte all’altrui sofferenza – ci appartengono. Sono possibilità che l’arte ha esplorato, ci ha reso famigliari e forse guardiamo adesso con noncuranza. Eppure gli artisti sono da sempre attentissimi al dolore, alla percezione della sofferenza in tutte le sue umane sfumature. C’è un fondamento però che è spinoso e ruvido da scrivere, necessario per comprendere il tema: il dolore sta alla base del vivere, ma l’importante è che rimanga – il più possibile – lontano da noi e dalla carne della nostra carne.
Il danno – noxa – e i suoi recettori – i noxicettori – caratterizzano l’intero regno animale, perciò anche l’uomo e quindi gli artisti. Alla base del nostro racconto c’è un grande problema: se il resto del regno animale soffra. Che provi dolore è sicuro, che ne faccia esperienza, lo ricordi, lo trasmetta anche, ma tutto questo nella realtà non ci interessa. Alcuni creativi hanno affrontato il problema, ma sono davvero una minoranza; ne presentiamo uno, arguto, dal tratto grafico che ammicca alla pittura, ai volumi, al chiaroscuro: è il messinese Riccardo Orlando. Ha preso dall’immaginario collettivo i simboli, le liturgie, il lutto, la quiete cimiteriale, la rigorosa e geometrica solennità dei cipressi, la pietà, la fascia al braccio, per disegnare una tavola di Arcipolpo. Un fumetto eoliano, che profuma di mare: ogni specie guarda al proprio prossimo, chi spicca per intelligenza si commuove, chi è solo un numero ne contempla il risultato davanti ad una scatola della mattanza industriale.
Abbiamo perciò, guidati dalla maggioranza, deciso di ragionare solo sul dolore umano e sul ventaglio di emozioni con cui il dolore si cela o si adorna. La radice del dolore è il danno, mentre un’espressione di equilibrio – e perciò di salute – è la simmetria. Diventa semplice per un artista ragionare così: se prendo e deformo la simmetria, se creo mutazioni inaspettate e improvvise, produco nell’osservatore un’emozione dolorosa e lo induco a provare sofferenza. Non occorre sia una scelta razionale, che alberghi nel creativo un leggero sadismo per produrre opere che facciano soffrire; è molto più probabile che l’artista – essere più sensibile della norma – rifletta nell’arte il proprio patimento. Se andiamo a scavare, ma nemmeno troppo perché basta grattare la superficie delle biografie, troveremo con grande facilità dietro ogni sofferenza la guerra o una violenza, abituale o ripetuta.
Ritengo che l’opera madre dell’umano dolore, ma soprattutto della sofferenza, sia il celeberrimo Skrik, cioè L’urlo del norvegese Edvard Munch. Il dipinto al Museo di Oslo risale al 1893, è una tempera ma subisce il fascino e il ricordo della xilografia. I colori sono colpi di pennello, linee di pigmento, quindi sofferti segni che non dipingono, ma strutturano l’opera, la costruiscono secondo la sostanza di quanto rappresentato, dell’emozione subita dall’artista. Linee carezzevoli e morbide nel cielo, turbinose nelle profondità marine, risucchianti e fascicolate nel paesaggio fisico, fagocitato dallo scorrere inesorabile del tempo, evanescenti e quasi incorporee nella persona, ormai diventata fantasma e ricordo, volontà sfinita di un corpo che è ormai incapace di tenere il punto sull’ansia e l’ossessione. Un essere sconfitto, svuotato e palpitante. Come sempre ci soccorre la storia, che dovrebbe essere riscontro, verifica, di ogni ragionamento. La Norvegia era terra di resistenza all’invasore, cercava disperatamente di ricongiungersi alla corona di Danimarca, cui il Congresso di Vienna la strappò per regalarla alla Svezia. Una guerra iniziale per ricondurre il Paese alla ragione, un secolo di guerriglia e poi, finalmente nel 1905 arrivarono la libertà e il ritorno alla madrepatria. Munch, psicologicamente fragile, figlio di una famiglia colma di sofferenze, in una Nazione assoggettata che lottava per potersi autodeterminare: questo era l’ambiente in cui è nato Skrik.
Chiunque abbia vissuto l’esperienza bellica direttamente o il clima greve che precede ogni conflitto, nella propria arte riflette la sofferenza, diretta o interiore, la ferita viva dell’irragionevolezza. Allo stesso tempo, però, il creare diventa catartico e l’opera – nonostante il dramma vissuto – aiuta a elaborare e superare il dolore. Attraverso le lacrime cerca in silenzio, ancora e sempre, una forma di bellezza. Nel 1914 Egon Schiele ormai emancipato dalla Secessione, a capo della Neukunstgruppe e reduce dall’esperienza del carcere, sente su di sé il crollo di un’epoca e ancora una volta crea un corpo contratto, chiuso e nascosto alla comunicazione, in fuga statica dal mondo esterno.
Del 1923 è l’opera I sopravvissuti della prussiana Käthe Kollwitz, che pochi anni prima aveva perduto il figlio ventenne Peter, volontario nell’esercito imperiale. Mostra senza simboli né retorica gli orfani della guerra, i mutilati, i giovanissimi superstiti della grande fame generata dal blocco marittimo dell’Atlantico. La composizione ha una rigorosa partizione, tre bande orizzontali, nove quadrati complessivi di cui, quello centrale è completamente nero, inghiottito dalla voragine del conflitto. I volti scarnati, i lineamenti induriti, la pelle che sembra cuoio: sono una somma di mute presenze, di testimoni; per chi guarda l’unica via di fuga resta il vuoto nero, un futuro senza luce.
Otto Dix dipinge il Trittico della guerra, che aveva vissuto da volontario – inizialmente entusiasta – combattendo sui due fronti: Orientale e Occidentale. Sarà richiamato anche per il secondo conflitto, da veterano pluridecorato, anche se nel frattempo Dix era divenuto un convinto pacifista. La crudezza della sua testimonianza artistica spinse le autorità del Terzo Reich a considerarlo uno degli artisti degenerati. Perché quest’opera fu così osteggiata? Ancor prima del nazismo la pittura di Dix turbava, raccoglieva critiche feroci, era sovente allontanata da musei e gallerie. Da una parte l’Artista che eternava l’orrore vissuto, riportandolo – nonostante i corpi dilaniati e il tanfo della battaglia – a una pacata simmetria, a una composizione quasi sacra, alla livida bellezza dei colori, alle forme che sono allo stesso tempo pesi visivi e frammenti anatomici. Nulla nel dipinto muove all’empatia: sono gli occhi intrisi di disastro che rimangono attoniti davanti a un paesaggio di morte.
Se l’opera d’arte diventa messaggio, più che esperienza diretta, si carica di elementi simbolici e attraverso la distorsione dell’immagine cerca di evocare nell’osservatore l’orrore e il disagio interiore provato dall’artista: è il caso dell’opera celeberrima di Pablo Picasso, Guernica. Realizzata nel 1937 per l’Esposizione Universale di Parigi, porta con sé la capacità dell’artista di costruire uno spazio virtuale, di sfigurare il raffinato realismo del Periodo blu, di rendere vivida e quasi espressionista l’esperienza del cubismo sintetico, di richiamare la dionisiaca sfrenatezza dei Balletti russi quasi fosse un momento cristallizzato di una gigantesca danza macabra nel sipario della storia. Picasso visse la guerra da cittadino di uno stato neutrale. Per il conflitto civile spagnolo scelse di riparare a Parigi: per questo Guernica comunica la guerra, trascina in un turbine di sofferenza, esprime un giudizio personale di ripulsa della violenza bellica. Nasce per coinvolgere e raccoglie tutta la tecnica dell’arte per colpire emotivamente chi la guarda.
L’esperienza diretta della guerra industriale dove le trincee rappresentano bocche fameliche e zanne feroci sostenute da un fronte interno che militarizza intere Nazioni comincia a sgranarsi, a perdere di novità pochi anni dopo la fragile pace di Versailles. La violenza entra nella vita ordinaria e uno stillicidio di conflitti prepara già il terreno al secondo conflitto mondiale. I Bianchi e l’Armata Rossa continuano a incendiare l’Europa orientale, sulle ceneri dell’Impero Ottomano si afferma con forza la nuova Turchia, l’Italia tenta una successiva avventura coloniale mentre in patria cresce lo squadrismo, in Spagna è guerra civile, nella neonata Germania è un proliferare di tentate rivoluzioni socialiste. Il dolore è nel quotidiano, il continente è un cumulo di rovine. Non vi è più tempo per indulgere sulla sofferenza, una colossale rimozione collettiva dell’esperienza bellica apre le porte ai nuovi simboli, alle ideologie, a una visione manichea della realtà.
Il riflesso nell’arte è immediato: le istituzioni rifiutano la sofferenza, elevandola a eroismo. Rappresentare il dolore diventa tradimento, chi non riesce a sostenere queste nuove dinamiche vive ai margini, in bilico tra dissoluzione e dissolutezza. E’ con questa chiave di lettura che affronteremo il dolore nell’arte contemporanea, che trova così una propria logica, semplice e disperata. Poche sono le strade che restano percorribili in un mondo ormai alienato: l’autoannullamento, l’autoesaltazione, il sacrificio individuale e la teatralizzazione della sofferenza.
Dal crollo degli imperi, che tenevano in equilibrio un continente multiculturale, alla catastrofe delle identità di razza e di nazione; dal fallimento delle ideologie, all’anarchia collettiva delle plutocrazie democratiche; la sofferenza è solitudine ed emarginazione o rito collettivo che diventa liturgia del dolore. La tragedia del singolo si spegne nell’indifferenza della massa.
Nel 1949 Francis Bacon dipinge Head VI, proponendo una figura che lo ossessiona, modellata sul Ritratto di Innocenzo X di Diego Velázquez. Un artista che vive di ubriacature e droghe, di un’omosessualità vietata e riprovata, di scommesse e gioco d’azzardo clandestino, raccoglie l’identità iconografica del mondo cattolico e la sfregia con un volto sfigurato. Nel suo gesto di ribellione la modernità si riconosce e lo fa icona e specchio del proprio tempo. Negli stessi anni Anton Zoran Mušič, artista sloveno, è un sopravvissuto del Lager di Dachau. Decenni dopo l’immagine della morte senza giustificazione né ragionevolezza è ancora vivida, marchiata nella mente con forma indelebile. Mušič è un testimone diretto, sa che il dolore e la morte fanno perdere ogni dignità, riducono la persona a corpo gemente o, semplicemente, a rigido corpo senza identità. La sua testimonianza rimane dolore non metabolizzato, solitario nell’indifferenza degli altri. Ricordare Dachau è il ripetersi di una tragedia ormai intima, nell’indifferenza generale. Volge lo sguardo ai cavalli, ai paesaggi sloveni: cerca un equilibrio senza trovare risposte. Sembra esserci affinità formale tra queste due opere, di Bacon e di Mušič. La prima però urla il crollo e l’annientamento di un intero universo culturale; così come Guernica, anche l’opera di Francis Bacon non opera attraverso il ricordo, ma agisce direttamente sull’identità culturale collettiva: è la vera ragione della forza comunicativa di entrambe. Mušič, Bacon, Picasso e Frida Khalo sono i nostri esempi di chi visse a stretto contatto con la violenza di uno scontro epocale, della guerra che non era fine ma strumento per l’affermazione di un’ideologia. La Khalo, ad esempio, visse a stretto contatto con il rivoluzionario sovietico Lev Trockij, ospite fino al 1938 nella Casa Azul, dimora dei Rivera. Il fondatore della Quarta Internazionale fu una delle grandi menti che hanno dato forma al mondo contemporaneo: le loro riflessioni nell’arte sono raffigurazioni teoretiche, non vanno lette come diari personali. Quando, nel 1944, Frida Khalo dipinge Arbol de la esperanza è ben consapevole della propria indicibile sofferenza ma sente profondere nella propria identità la forza e la dignità dei nativi e si autorappresenta ieratica, frontale. Una guida, capace di ridare slancio – attraverso il proprio fatale e involontario martirio – alla rivoluzione di chiunque ingiustamente soffra.
Chi, invece, per motivi generazionali e storici non è stato così partecipe al cataclisma del Novecento tende a caricare la parte simbolica e – come un penitente – si flagella attraverso l’arte per trascinare l’osservatore nella propria sofferenza e – attraverso l’empatia – guadagnarlo al proprio ideale, al mondo di valori in cui personalmente crede. Il cubano Carlos Martiel s’infligge lesioni per abbattere un muro d’indifferenza nella società e riscattare lo strazio di generazioni di neri deportati, fatti schiavi, marginalizzati. Attraverso la sua arte critica la volontà di possesso e la colonizzazione, il ruolo subalterno che i non bianchi sono costretti a vivere nonostante le continue affermazioni di principio che affermano la piena parità.
Anche l’universo fotografico di Robert Mapplethorpe, nato a New York ma di sangue irlandese – la famiglia era cattolica – è la traccia di un suo mondo ideale. Qui, bellezza estetica, irruenza fisica e desiderio, si mescolano alla consapevolezza della propria posizione di rigettato sociale, perché fuori – per uso di droghe, inclinazioni e pratiche sessuali – dai valori più comuni della società. Mapplethorpe usa molto i simboli perché apre un dialogo virtuale tra le grandi istituzioni culturali e il proprio dolore individuale. Abbiamo perciò scelto una sua opera in forma di croce costruita con scatti degli anni Ottanta e presente nella Collezione Terrae Motus, al Palazzo Reale di Caserta (Dennis Speight with thorns; Jack with crown; Skull and crossbones; Jill Chapman; Dennis Speight with flowers).
L’arte passa così dal dramma mondiale della guerra all’esigenza di scuotere attraverso il dolore autoinflitto o la rappresentazione scenica, una collettività nuovamente intorpidita. Si procede dalla memoria di chi ha vissuto indicibili sofferenze e le testimonia a chi, testimone sensibile di un dolore, lo ripropone e ne fa il tema del proprio messaggio, che sia la riscoperta di una dionisiaca necessità o la scorata consapevolezza del degrado umano. Il teatro, infatti, è teatralità: è presenza di un gesto significante. Non ha bisogno dei palchi dorati e delle poltrone di velluto ma dell’impeto individuale e degli attrezzi di scena, anche se ridotti a tal punto da coincidere con la fisica nudità dell’artista. Le performance dell’austriaco Hermann Nitsch si avvalgono del dolore altrui, la macellazione e il sangue animale, per spostare l’attenzione sull’uomo e gli istinti di violenza primordiale. Anche l’artista serba Marina Abramović si avvale del medesimo procedimento: nella performance Balkan Baroque, alla Biennale di Venezia del 1997, l’Abramović rimane per quattro giorni e sei ore seduta su tonnellate di femori di bovino, freschi di mattatoio, pulendoli in modo ossessivo dai residui di muscolo e tendini, come atto di denuncia per la guerra in Jugoslavia.
L’esperienza del dolore torna a essere personale; vi sono artisti che la esprimono in maniera diretta, come Robert Mapplethorpe, rivolgendosi a un gruppo ristretto; chi abbraccia intere fette della società, come Carlos Martiel. Alcuni indagano sulle origini della violenza, Hermann Nitsch, altri, come Marina Abramović, ne evidenziano l’inutilità. Esistono ancora altre vie per confrontarsi con il dolore: non si parla più di guerra, ma di rapporto con se stessi e di relazione con la società. Una strada è sicuramente il mito dell’eroe, che vive nella coscienza dei tanti; è l’eroe di ogni conflitto trasformato ormai in mito collettivo: i centomila presenti al Sacrario di Redipuglia, il Milite Ignoto di fronte al quale fiammeggia il fuoco sacro dello Stato. Un’altra via è l’identificazione con il Dio invitto che supera ogni sofferenza e la morte per diventare un modello non solo di vita, ma – nel concreto – di resistenza e di resilienza. Per millenni l’uomo ha avuto la necessità di una Via Crucis, di un rito agrario che con il sangue versato permetta il rinnovamento del mondo.
L’artista siciliana Patrizia Prado, è nata ad Agrigento, s’identifica con il martirio del capro espiatorio, che subisce necessariamente la violenza per resuscitare e riscattare dolore e sofferenza. La Prado guarda oltre il sacro, ne espone l’aspetto tragico del rito, il colore è sangue, l’arte del passato diventa viva forma nel presente. L’artista Orlan violenta e sacrifica l’integrità del proprio corpo, attraverso interventi chirurgici muore e rinasce come crisalide che cerca di diventare farfalla, fa della sofferenza mirata alla metamorfosi la caratteristica del suo essere: la sua Nazione la acclama, le riconosce onori, s’identifica con il suo dolore la sua determinazione, collocandola fra i protagonisti di quella che è definita “arte post-organica o post-umana”. Mentre il sacerdote sloveno Marko Ivan Rupnik, con una comunità spirituale di mosaicisti, trascende il dolore nei santuari cristiani e raffigura le sofferenze di un Redentore che, nonostante lacerazioni e ingiurie fisiche, brilla di luce divina. Il Dio invitto che rassicura chi – nel suo esempio – sprezza la rovina del corpo ed esalta la vita che verrà. Il dolore, in questi tre casi, torna a essere alchemico: non c’è elevazione senza sofferenza.
E’ possibile, però, guardare al dolore con occhi diversi, più riflessi, più sensibili all’umanità di chi – ogni giorno, attorno a noi – patisce in silenzio la propria condizione. Fuori dai perimetri della guerra, lontani dalla violenza inaudita degli olocausti, distanti dal manicheismo delle ideologie, esiste un mondo da osservare con attenzione, una società che senza bombe né sangue, lascia comunque una grande, umana sofferenza. E il soffrire, ricordiamolo, non è solo dolore del corpo ma anche una pesantezza del vivere. Lo scultore tedesco Martin Emschermann è un abile modellatore d’argilla: trasforma la grigia terra in appunti di vita quotidiana e ha nel cuore una sensibilità tale che sembra un oratorio di Bach. La Germania, protestante o cattolica, è da sempre capace d’esprimere la condizione dell’uomo: Emschermann, nel suo Mendicante di Genova, coglie il dolore morale di chi è costretto a dipendere dalla carità del prossimo. Un corpo schiacciato dalla vergogna, uno sguardo che rimane fisso a terra, una mano protesa e rigida, l’altra come aggrappata a un sostegno, perché l’uomo che non ha un ruolo sociale, quindi non ha lavoro, diventa incorporeo e molle, vorrebbe sparire e nascondere così la propria vergogna.
Emschermann coglie un gesto senza tempo, assoluto, nel suo implodere emotivo, nel desiderio palese di salvare – nascondendo il volto – quel minimo di umana dignità rimasta. Maurizio Cattelan, al contrario, fissa un altro gesto senza tempo, il suicidio, evidenziando la consapevole libertà di dire basta. You, questo è il titolo dell’installazione, sta ancora turbando il mondo dell’arte: è stata presentata da pochissimo in uno dei raffinati bagni di marmo nella Casa Corbellini Wasserman, un gioiello dell’architettura milanese del primo Novecento. Un uomo di bell’aspetto, vestito con un abito di elegante sartoria, abbandona – volontariamente – la vita. Tiene fra le mani qualcosa di bello, è un piccolo mazzo di fiori, che stringe a sé e non lascia cadere. Ciondola a piedi nudi, prima di uccidersi ha cercato un ultimo, intimo, contatto con la terra: avrebbe potuto impiccarsi calzato, invece ha voluto sciogliere questo malinconico abbraccio. Della terra porta un ricordo, fatto di vita, di profumi, di speranza. Non è un suicida rancoroso, tutt’altro. Ha semplicemente scelto e le ragioni della sua scelta dovrebbero scuoterci, più del sangue bovino, della sofferenza volontaria. E’ uno come noi, ma non comprendiamo – o preferiamo non immaginare – i motivi del suo gesto. You è opera di delicata sensibilità, ci mostra un’opzione, ci permette ancora una scelta.
Abbiamo compreso che gli artisti più sono lontani dall’aver effettivamente combattuto o vissuto la tragedia della guerra, più assertiva e intrinsecamente violenta diventa la loro arte. Per questo You mi è parso così nuovo, nonostante il dramma rappresentato pone dubbi, non genera certezze: ci porta a un dialogo interiore, spinge verso una riflessione. E’ l’esatto opposto dell’ultima immagine che vorrei presentare: non è arte ma storia; è l’esecuzione di Cesare Battisti, fotografia di un anonimo scatta nel 1916 a Trento, Castello del Buonconsiglio. E’ un’immagine drammatica e potente, che ha sbagliato – nel profondo – la sua funzione di propaganda. Il dolore non sempre genera sofferenza in chi lo guarda; siamo troppo abituati ad accettarlo operando dei distinguo: dolore del diverso, dolore animale, dolore del nemico, dolore di chi si odia. Le mani contratte, il volto ridotto a maschera senza vita del patriota/disertore è emblematica: tutto dipende dal punto di vista di chi guarda. Sofferenza continua purtroppo a rimare con indifferenza.