In una delle rare occasioni di una conversazione diretta fra l’uomo e l’Onnipotente scopriamo quanto anche per Dio l’oro sia importante. Spiegando a Mosè come avrebbe dovuto costruire l’Arca dell’Alleanza, Yahweh gli disse: “La rivestirai d’oro puro; la rivestirai così, sia dentro sia fuori; le farai al di sopra una ghirlanda d’oro, che giri intorno. Fonderai per essa quattro anelli d’oro, che metterai ai suoi quattro piedi: due anelli da un lato e due anelli dall’altro lato”. E’ evidente che la divinità stessa riconosca nel raro metallo ciò che più si adatta a custodire e a rendere omaggio alla sacralità.
Nella manciata di secoli che noi definiamo storia, le grandi civiltà ebbero nell’oro la propria autorappresentazione, la prova più concreta della superiorità raggiunta. Questo naturalmente stimolava l’invidia e aguzzava l’ingegno di chi era costretto nella periferia. Come agguantare questo centro luccicante? Come saziare la propria avidità? La risposta più scontata era la guerra: prendere con la forza quanto di più prezioso avesse l’altro. Sono passati ottomila anni da quando infiniti schiavi d’Egitto morivano nelle miniere della Nubia, ma cosa significa in egiziano questo toponimo? Semplicemente Nub cioè oro. Altro metallo nobile veniva dall’Anatolia e Troia ne era il grande centro di smistamento. Non a caso anche Troia, dopo lungo assedio, fu sopraffatta e non ci fu pietà per i vinti: Cassandra fu stuprata sull’altare di Atena, l’erede Astianatte lanciato giù dalle mura e la sua giovane zia Polissena data in sacrificio sulla tomba di Achille.
La fame d’oro non conosceva limiti: Creta e Micene diventarono le nuove piazze di smercio e poi i Romani si gettarono a capofitto nelle miniere iberiche, con una forza lavoro davvero impressionante. Quel che resta oggi a Las Médulas – nella Spagna settentrionale – sono carie di monti che oltre sessantamila minatori fecero deflagrare imbottendo le pendici di acqua fino a farle franare. Centinaia di chilometri di acquedotti, schiere di uomini consumati in uno sforzo che lo stesso amministratore Plinio il Vecchio definì degno dei Titani. Esaurite le vene spagnole, l’occhio di Roma si volse alla piana del Danubio che Traiano sottomise e saccheggiò proprio per impossessarsi dell’oro dacico. Senza freni inibitori i popoli antepongono l’oro a qualsiasi forma di umano rispetto e la piazza del prezioso metallo si sposta seguendo guerre e conflitti: nel Rinascimento cade Costantinopoli e Palermo si arricchisce trafficando coi banchieri lombardi e toscani. I conquistadores annientano popoli cercando l’Eldorado e nel Settecento il Brasile sarà sventrato dai portoghesi non appena scoperto i giacimenti di Minas Gerais: quarantamila dominatori dal Portogallo e mezzo milione di schiavi ci danno la misura di questa nuova epopea.
Il nobile metallo è intriso di dolore. Sono stati centinaia di migliaia gli oppositori russi consumati dalla fame e dal gelo nell’industria aurifera della Kolyma, per estrarre l’oro della tundra a oltre diecimila chilometri a est di Mosca: erano gli anni di Stalin e dell’arcipelago Gulag. Erano orde d’uomini come cavallette nel 1849 in California nella nuova corsa mineraria; uomini contro uomini nella guerra angloboera per l’oro del Sud Africa; uomini contro l’ambiente nelle odierne miniere dell’Australia orientale.
L’oro si ricicla, gran parte della massa aurea in circolazione è la somma di questa brutale e millenaria aggressione. Quello che si estrae oggi porta con sé il patimento ambientale perché la sproporzione fra l’oro raccolto e lo sforzo per farlo è immensa. Quanto pesa la fede che molti di noi portiamo all’anulare, ricordo di un giorno felice, promessa di rispetto e simbolo d’indissolubilità? Dieci grammi. Quanta terra occorre muovere per estrarre una fede nuziale? Serve una tonnellata di terra per ottenere mezzo grammo d’oro, quindi venti tonnellate di terra cioè duecento quintali: un peso pari a circa trecento persone. Adesso che abbiamo più consapevolezza di cosa ci sia dietro la lucente bellezza di questo metallo vediamo il perché l’uomo tanto sacrifica e distrugge pur di ottenerlo.
Raro e incorruttibile l’oro accende il desiderio, o meglio la brama di possesso. Non subisce le ingiurie del tempo, assorbe le lunghezze d’onda del blu e brilla perciò di toni caldi, quasi fosse materia fatta di fuoco e gli uomini, che hanno un inconfessabile desiderio di un capobranco, gli associano ogni virtù. E’ positivo dai sogni d’oro di un’affettuosa buonanotte all’indimenticato Maradona, El Pibe de Oro del calcio mondiale. E’ regale nell’autorappresentazione monarchica, è chiaro indice di ricchezza e ostentazione del potere economico. L’oro è anche luce e segno della trascendenza: apparire su fondo oro, avere l’aureola, indossare la corona sono tutti tradizionali indicatori di superiorità. Scatta così un meccanismo elementare. L’oro identifica il capo cui ci affidiamo e il capo può solo volere il bene collettivo: altrimenti sarebbe stolto donargli la piena fiducia.
L’oro diventa così il segno padronale, il suo tratto distintivo: possiamo abbandonare ogni sospetto, l’oro ci accoglie e rassicura; stende su di noi la sua protezione perché racchiude ogni valore: guida e padre, traccia del divino e garanzia del favore celeste. Per questo ogni Delfino assume la maestà regale il giorno dell’incoronazione, quando il più nobile dei metalli splende sulla sua testa, indipendentemente da ogni esame di merito. Questo suggello è il messaggio più forte che ancora oggi l’oro ci suggerisce: se coniugato alla bellezza diventa alta gioielleria e rende digeribile la superiorità di chi lo indossa. Eppure, nel profondo, la sua vera natura è ambivalente perché l’oro rassicura il debole, giustifica la posizione del forte, certifica la benevolenza della divinità.
L’oro, di per sé è sempre stato un metallo inutile. A differenza del rame, del ferro, dell’acciaio non può diventare né arma né strumento: è solo raro e per essere usato in gioielleria ha bisogno di legarsi ad altri metalli. La sua importanza nella componentistica elettronica è troppo recente perché spieghi la lunga storia commerciale. Allora perché quest’elemento così arduo da trovare scatena e libera i nostri istinti primordiali?
Raccontava il poeta Ovidio, ai tempi di Augusto imperatore, che un antico Re di Frigia restituì a Dioniso il suo anziano maestro Sileno. L’aveva tenuto ospite nella reggia, si deliziò dei suoi racconti e dopo alcuni giorni lo accompagnò in Lidia dal proprio divino allievo. Il re, chiamato Mida, ottenne dal dio il potere di trasformare in oro tutto quanto toccava. Subito entusiasta poi disperato quando si accorse che anche il cibo diventava metallo e la morte per fame sarebbe stata il suo amaro destino. Bacco, impietosito, riportò al corso naturale lo scorrere dei giorni e Mida poté tornare alla propria vita di corte.
Questo frammento di mitologia classica ci spiega che, da sempre, l’uomo sa di non dover eccedere nel desiderio eppure non riesce ancora a moderare la propria intemperanza. Così è lo stato di fatto dell’oro: un metallo malleabile, una caccia esasperata, un valore assolutamente simbolico legato soprattutto alla sua rarità. Prima di passare al mondo dell’arte contemporanea facciamo un’ultima considerazione: l’oro è stato per quasi tre millenni moneta merce, dai tempi del Partenone quando un re asiatico, Creso, fece coniare le prime monete. Erano soldi d’oro ma il sistema non cambiò, anche quando il denaro divenne carta o metallo vile perché sempre ancorato a riserve auree. Fino al 15 agosto 1971 il dollaro statunitense e le valute a questo collegate, tra cui la lira, avevano un aggancio diretto con i depositi di lingotti, ma il presidente Nixon con le finanze esangui per la guerra in Vietnam dovette annunciare la fine della convertibilità del dollaro in oro.
Questo sistema, secondo l’economista britannico Keynes, era una “barbara reliquia” ma nulla ha tolto al prestigio dell’oro che continua a identificarsi come ancora di salvezza. Nei caveau scavati sotto il livello del mare nella dura roccia su cui poggiano le lucenti torri di Manhattan, ne contengono oltre 6.500 tonnellate; l’oro federale degli USA è protetto dalla base militare di Fort Knox, mentre in Europa i maggiori depositi sono ripartiti tra Londra, nello Square Mile, Zurigo e a Parigi, dove è custodito nei sotterranei della Banca di Francia.
In questi depositi l’oro riposa e garantisce, dà sicurezza agli stati e solidità alla finanza: non si vede ma ne accresce il simbolismo e proprio di questo si alimenta l’arte contemporanea attraverso l’ironia, la dissacrazione o la conferma del suo status millenario. Più ci si allontana, socialmente, dai gangli nevralgici del potere – economico o religioso – più il desiderio dell’oro si fa impellente, fisico, rituale. Molti artisti moderni hanno usato l’oro ma non è solo colore, luce, materia, bensì una riflessione sull’intera società e sui valori attraverso i quali la stessa si giustifica.
Paolo Canevari, romano, per “La forma dell’oro” alla Buildingbox di Milano” presenta i “Golden Works”. Sono le forme tradizionali dell’arte, quelle che – sontuosamente dorate a foglia – ammiriamo nelle maggiori pinacoteche. L’artista cancella la narrazione perché non intende suggerire una gerarchia di ideali. Lo spazio del trascendente di ogni pala d’altare gotica è presente ma muto: la relazione fra l’osservatore e la scala di valori è diretta, senza intermediari. Ognuno cerchi nel proprio riflesso il limite etico all’anarchia della realtà.
L’iraniano Navid Azimi Sajadi, per un’installazione site specific alla Zisa di Palermo, segna con l’oro la forma generatrice dell’architettura medievale islamica in Sicilia. Dalla superficie erosa e scabra del Palazzo, lo spazio dell’arco prende concretezza e attraverso l’oro si consegna a chi lo guarda portando in dono un reticolo siderale di grafismi, simboli e forme costanti in tutta l’area mediterranea. Palme e pavoni, aquile, farfalle ed ex voto appartengono a un’intera civiltà, che è fatta di molti rami ma con una radice comune.
L’oro, nella propria incorruttibile bellezza, s’identifica facilmente con il mondo superiore: quello dell’interpretazione autentica, delle verità immutabili, del dogma. L’artista rilegge la realtà attraverso se stesso portando il narcisismo a un livello superiore quasi sciamanico. L’oro ne sostiene l’espressione, conferendogli autorevolezza, spezzando le catene del transitorio. L’innaturale diventa plausibile – come per “Famae volat” di Luigi Ontani – e il quotidiano si trasforma in archetipo nel “Ritratto oro” di Michelangelo Pistoletto.
L’oro spinge l’osservatore a interpretare l’opera come epifania di una realtà dal grado cosmico. Lo abbiamo visto nel grande arco di Navid Azimi Sajadi che è sia l’intera cultura mediterranea, sia il modulo base del capolavoro architettonico: l’arco diventa la totalità, le maioliche sono il flusso della storia. Lo ritroviamo ne “Il dormiente d’oro” di Mimmo Paladino che appartiene solo in parte all’esperienza -dorme, riposa – e per il resto diventa un’inconoscibile divinità antropomorfa.
Proprio perché l’oro ha i medesimi caratteri del divino trascendente – cioè restare fuori dai cicli della natura – la reazione più istintiva che suscita è l’appropriazione. Essere inseminati dalla divinità ci rende custodi delle sue virtù, banchettare con il suo corpo incorruttibile ci eleva, ma deve essere un gesto reiterato, rigeneratore, capace ogni volta di strapparci dalla bassezza delle pulsioni in cui costantemente ricadiamo. Danae fu fecondata da una pioggia d’oro: è lo stesso tocco vivificante lasciato dalla georgiana Sophie Ko sui legni di vecchie scale, della colatura metallica fatta dal siciliano Vincenzo Muratore, dei frammenti di foglia d’oro sui piatti preparati dagli chef stellati. L’artista, in questi casi, sostituisce la divinità e con il proprio gesto riscatta la presunta miseria del mondo materiale.
Quando invece è la rappresentazione ad essere preponderante sul materiale, l’uso dell’oro sposta il significato dell’opera dal particolare all’universale. E’ il caso di “A Devilish Ashtray” dell’artista belga Jan Fabre che dà all’irriverenza del volto, costretto in un posacenere, la misura di come nonostante tutto si debba affrontare la vita di ogni giorno. Oppure Papa Giovanni Paolo II abbattuto da un meteorite ne “La nona ora” di Maurizio Cattelan. L’oro lucido del Santo Padre e quello opaco della cometa caduta trattengono l’intera scena nell’ambito del sacro, ribaltandone la cosmogonia. E’ una natura irruente e ribelle che smaschera la fragilità di ogni istituzione ex cathedra.
L’oro nell’arte può avere una funzione anche struggente o evocativa, come nelle opere dello statunitense Kay Jackson. L’artista usa il nobile metallo per dare forma a ciò che di più prezioso si sta oggi perdendo: la biodiversità. Jackson usa schemi non lontani dai tabernacoli del Rinascimento ma, al posto del Sacro Corpo di Cristo sceglie le vittime incolpevoli del progresso e della globalizzazione. Eleganti gru orientali, bisonti e altri animali estinti o molto rari sono rimpianti con foglia d’oro, linee semplici e richiami dal classico al paleocristiano. In “Rhinoceros constellation box” il grande erbivoro contiene l’intero universo: la sua perdita è il baratro dell’intera umanità.
Lo scultore piemontese Giuseppe Penone, sensibile e attento osservatore della morfologia dei viventi, usa la brillantezza dell’oro in “Luce e ombra” dove l’apparente leggerezza di un vegetale maschera un richiamo alla solida geometria elementare. Le foglie sembrano galleggiare sulla superficie liquida di una grande bolla d’acqua sospesa. Catturano il sole, lo trattengono all’esterno mentre l’intrico dei sostegni si vela di buio e profondità. L’oro – che è allo stesso tempo astrazione e natura – comincia così a esprimere la propria arcana fascinazione.
E’ sicuramente nell’arte orafa che l’oro, sin dai tempi più remoti, ha acceso nell’uomo la scintilla dell’intuizione estetica. I monili più belli della classicità, dietro l’apparente naturalismo, nascondono una rigorosa costruzione geometrica e per questo ancora oggi ne apprezziamo l’intramontabile bellezza. Questo segreto di progettazione, dove la forma è funzionale all’equilibrio visivo, improntò tutta l’architettura sacra della Magna Grecia e tuttora si ripresenta, anche se raramente, attraverso le abilità di alcuni grandi maestri del gioiello. La casa fondata a Milano dal marchigiano Mario Buccellati ne è un esempio. Il bracciale in perle e foglie di vite esalta – attraverso la composizione e i piani di taglio dell’oro – la capacità di rallentare la luce frangendola in una miriade di emozioni visive. I pendenti in microfusione dell’architetto messinese Giuseppe Geraci guardano a una civiltà ancora più antica. Realizzati in pezzi unici, mantengono al tatto la porosità dell’oro appena uscito dal crogiolo, che dopo aver sciolto la forma in cera si raffredda lentamente nel proprio stampo di gesso da fusione. Le forme di Geraci hanno ancora l’eco geometrica dei vasi siculi, il ricordo dei cordami, un accenno a forme della natura e uno straordinario equilibrio tra i pieni e il vuoto.
L’oro irrompe nella sfera emotiva di chi lo avvicina, ha una capacità di attrarre che scuote indipendentemente dal messaggio di cui è caricato dall’artista. Accostare “America” dello scultore padovano Maurizio Cattelan ai duemila metri quadri d’oro della chiesa inferiore nel Santuario San Pio da Pietralcina, lavorati a mosaico dal padre Marko Ivan Rupnik, può sembrare un accostamento irriguardoso. Il primo è una smagliante tazza igienica, con il suo impianto idraulico perfettamente funzionante, l’altro il luogo sacro, dove riposa il corpo di uno fra i più amati santi della modernità. Eppure papa Benedetto XVI quando presenziò al Santuario nulla eccepì sull’oro, apprezzando invece la lettura teologica dell’intera opera: nell’oro l’eternità, nella rappresentazione il sacro che entra nella storia. A cosa sono serviti, quindi, i tanti chili di metallo prezioso impiegati per queste due opere? L’oro, proprio perché estraneo ai cicli della natura ma non è un prodotto di sintesi aiuta l’uomo a mettersi in discussione. E’ più puro e incontaminato di chi lo guarda, è slegato da ogni corruzione fisica, è sicuramente un paragone non contestabile della nostra caducità. Segno manifesto di un trascendente che ci ama e protegge o prova inequivocabile del nostro appartenere al ciclo della materia e della decomposizione? L’arte solleva gli interrogativi, sarà la filosofia a cercare le risposte.
L’arte contemporanea in Occidente ragiona sull’oro come elemento chimico: raro quindi prezioso, incorruttibile perciò quasi fuori dai cicli della natura. Non è questa l’unica prospettiva: l’oro può anche essere luce, principio universale che traspare attraverso la materia. Basti pensare alle icone bizantine e alle ricerche assolutamente nuove che Leonardo da Vinci sviluppò proprio negli anni in cui in Italia arrivavano gli ortodossi, perché la vecchia Costantinopoli era da poco caduta nelle mani degli infedeli. Questo breve accenno ci introduce a un mondo diverso. Leonardo lo intuì, suo nonno era un mercante, conosceva i porti legati all’Oriente: il ritratto della giovane nobile su pergamena del 1495 è un corpo da cui la luce promana, e come il Cenacolo dipinto per velature su una base di candida biacca.
Per la cultura orientale lasciamo che ci sia guida l’artista Diana Lo Mei Hing.
“Ricordo, fin da bambina, che il colore oro degli ideogrammi augurali in rilievo sul rosso era tanto desiderato durante la vigilia della Festa della Primavera (Anno Nuovo Lunare Cinese). Durante la notte, gli adulti lasciavano sotto il cuscino le buste rosse con le scritte dorate e all’interno monete nuove di zecca: non, come avviene in Occidente, i regali scelti dagli adulti o premi personalizzati, ma solamente queste piccole buste rosse e oro. Le monete ci rendevano consapevoli delle nostre scelte, del decidere ma anche del rinunciare: è importante per noi dare fin da molto piccoli un’educazione responsabile. Il rosso e l’oro sono stati i colori della mia infanzia. Cinque sono per noi i colori fondamentali: nero, rosso, verde, bianco e giallo/oro. Amiamo il colore rosso, soprattutto se abbinato con l’oro, che per noi è un importante simbolo: tre secoli prima di Cristo l’imperatore Giallo fu il nostro patriarca; la civiltà cinese è nata sull’Altopiano della Terra Gialla (l’Altopiano di Loess) e la sua culla fu il Fiume Giallo. La maggior parte delle opere dipinte durante la Dinastia Tang erano gialle e durante le Dinastie Ming e Qing, il giallo era esclusivo della corte imperiale. Ai cittadini era vietato indossare gli abiti di questo colore, solo la famiglia imperiale poteva risiedere in palazzi con muri rossi e tegole gialle che diventavano di color oro sotto i raggi del sole.
Il colore oro è associato alla luce solare, una luce capace di trasmettere calore, forza, determinazione, colmare le più alte aspirazioni nel mondo della cultura, ma rappresenta anche la luce della luna, delle stelle, delle divinità e dell’immortalità. In pittura l’oro non è un colore ma è il simbolo di eternità, come le sculture lignee di Buddha ricoperte del colore oro, lo sfondo delle pitture nelle Grotte Dunhuang o lo sfondo delle pitture imperiali. Dalla dinastia Tang in poi troviamo molti dipinti su seta con lo sfondo dorato: palazzi imperiali o della vita di corte dipinti in modo simmetrico sono dello stile Confuciano, i paesaggi con acque e monti dipinti in uno stile più libero sono d’ispirazione Taoista. In entrambi i casi, l’oro usato come sfondo sottolinea che questo colore non è statico, ma pulsa di energia facendo vibrare la luce dall’interno dell’opera.
Anche in Giappone l’oro nell’arte è molto importante: con la tecnica del Kintsugi “Le cicatrici d’oro”, si aggiustano antiche porcellane e ceramiche rotte colandovi oro e argento. Le vecchie crepe così si evidenziano, sono cicatrici d’oro, come le ferite dei guerrieri o dell’anima. Risanandole con il colore oro si rafforza il glorioso valore dei samurai, le sofferenze si trasmutano in riflessioni spirituali. In questa tecnica vi è molto del concetto cinese dello Yin e dello Yang, la complementarietà degli opposti è il divenire dell’uno nell’altro. Il rotto non è necessariamente brutto o non più utile come nel pensiero occidentale; potrebbe rinascere ancora più bello, con un’anima impreziosita. Il Kintsugi nasceva nel Giappone nel XV secolo, ma ha ispirato molti artisti moderni e contemporanei. Esistono oggi dei laboratori che hanno sviluppato alcune varianti: quando mancano dei pezzi completi, utilizzano parti di ceramica o di porcellane completamente diverse giocando tra contrasti e armonia. L’artista coreana Yeesookyung s’ispira a quest’antica pratica giapponese; le sue opere si possono ammirare nella Galleria Saatchi di Londra”.
Torniamo a Milano, nel cuore pulsante della Pianura Padana, fra echi sabaudi, asburgici e i ricordi della Serenissima per terminare il nostro viaggio attraverso l’arte fra l’uomo e il più ambito dei metalli. L’oro è la pietra dello scandalo, quella che svela al mondo la nuda verità: di fronte a un elemento che rimane inalterato nonostante le ingiurie della chimica e del tempo, la carne e i desideri appaiono miseri, transitori e inconsistenti. L’unica via di scampo è considerare l’oro come riflesso del proprio spirito eterno o traccia di un Dio benevolente per sentirsi rassicurati e aspirare a confondersi con le sue intrinseche virtù. Nessun alchimista serio ha mai pensato che la pietra filosofale avrebbe sanato la corruzione materiale dell’intero universo ma ha creduto fermamente nel percorso individuale di salvezza raggiungibile attraverso la conoscenza. L’oro e l’anima aspirano a essere fusi in un abbraccio eterno, l’oro e l’anima sempre più prossimi alla perfezione del cielo.
La “Madonnina” d’oro di Giuseppe Perego innalzata a oltre 100 metri di quota nel 1774 sul Duomo di Milano sembra poter essere il simbolo di questa millenaria aspirazione e forse lo è ancor più di quanto non si creda. Il fascismo rispettò questo limite identitario fermando la Torre Littoria di Giò Ponti nel 1933 con apposita legge e anche la Repubblica Italiana rimase sotto quell’altezza con la torre Velasca del 1957. Pochi anni dopo, nel 1960, fu sempre Giò Ponti a osare il superamento e il Pirellone sfondò la quota interdetta. Poi nel 2010 si salì ancora con il Palazzo Lombardia e infine oggi a Milano svetta l’edificio più alto d’Italia: dal 2015 la Torre Isozaki nel complesso City Life ha raggiunto i 209 metri d’altezza. Pochi però sanno che su ognuna di queste punte svettanti al compimento dell’opera è sempre stata posta sulla sommità una copia della “Madonnina” di Perego. Il punto più alto che l’uomo raggiunge si adorna d’oro, spinge sempre oltre la pietra filosofale della conoscenza e così mantiene viva la sacra aspirazione a coniugare per l’eternità lo spirito individuale e il cielo divino.