Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

Luce e colore nel Duralar di Giacinto Occhionero

Servendosi di colori metallici, prendono vita atmosferee oniriche e mondi evocativo-psichedelici
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D. La nostra intervista comincia qui nella KOU Gallery di Roma in occasione della tua ultima mostra. E’ una selezione di opere racchiuse in un arco temporale di sette anni.
In realtà è un salto indietro e in avanti. Ho utilizzato Duralar nelle prime mostre con la galleria che mi rappresenta a New York, in seguito ho sviluppato il lavoro sul plexiglass ma senza mai abbandonare i fogli di Duralar. Questi ultimi sono dei fogli acetati molto sensibili e sottili, ogni azione sulla superficie lascia un segno. E’ come se fosse un tessuto nervoso.

D. Sono diversi dal plexiglass
Esattamente. Sul plexiglass puoi intervenire anche con un vigore fisico e manuale. Puoi lavorare, consumare, bruciare la superficie e corroderla. Mentre Il Duralar è estremamente sensibile, quindi puoi lavorare solo sulla forma e sul colore. E’ molto vincolante e necessita maggior precisione. Da qui si evince il titolo della mostra “Duralar Duralex”: è la legge che si autoimpone l’artista. Oggi tutto può essere arte e non c’è limite ai materiali, alle idee, agli spazi espositivi. E quindi credo che l’artista per se stesso abbia bisogno di autovincolarsi. Questo avviene in tanti modi e ovviamente dipende dalla singole individualità: dal carattere, dal medium che usa, dalla propria storia, tutto va ad incidere sulla produzione. Alcuni pezzi in mostra partono da suggestioni legate alla terra, all’archeologia, atmosfere gassose… fino ad arrivare a dimensioni più fantastiche e pischedeliche.

D. Per quale motivo alcuni quadri hanno come titolo dei codici numerici?
Sono le date di fine lavoro, per esempio 927 è il 27 settembre. Ma come vedi altri hanno titoli più evocativi

D. E’ stata importante l’esperienza in America nel tuo percorso artistico…
Bè la mia prima mostra di esordio è stata una collettiva un’occasione in cui presentare al pubblico di New York i primi lavori su carta, il plexiglass e il Duralar. Una sorta di presentazione di me stesso. Sono andato li dal 2011, dopo la crisi bestiale dell’economia. Grazie alla galleria che mi seguiva ho vissuto prima un mese girando per la città da turista. A New York se sei sempre turista… c’è talmente tanta arte e cultura del XX secolo per cui è davvero obbligatorio girovagare per i musei. Li ho visti tutti più volte. L’ultima volta nel 2018, ero ospite sulla Quattordicesima ed ero a due passi dal New Whitney Museum, una tappa davvero importante. Nella città di New York c’è una grande vitalità, soprattutto nei giovani. E’ senza dubbio un ottimo espediente per avere ottimismo anche sul tuo lavoro, ti offre un’importante dose di carica, perché l’artista può vivere anche tutto il tempo nel suo studio, ma poi ha necessità di condividere e confrontarsi. Ancora meglio se ciò avviene in un contesto davvero stimolante.

D. I tuoi lavori mostrano un notevole policromatismo. Ce ne puoi parlare?
Si lavoro molto sul colore, e soprattutto in questa serie lo utilizzo in modo più libero, soprattutto per il fatto di ritenerlo una categoria psicologica e non solo scientifica. Prendi Newton e Goethe quando parlano dei colori: da soli non bastano, insieme si completano. Quindi è necessario avere conoscenza tecnico-scientifica dei colori e della loro preparazione, ma allo stesso tempo è importante lavorarci secondo un’inclinazione emotiva. A volte anche dell’ironia. I colori, non tutti, li faccio personalizzare e riproducono la bomboletta. Sono colori industriali: dal Ral delle carrozzerie compongo ad esempio un ottanta percento di blu e un venti percento di rosso e ottengo un violaceo interessante. A volte faccio anche colori perlati che mi permettono di giocare con gli effetti cangianti. Posso giocare anche con toni più preziosi e mi piace inserirli…anche perché danno al quadro la possibilità di ottenere dei riflessi e permettere al colore di cambiare a seconda dell’inclinazione. A volte mi piace lasciare delle parti pittoriche libere per giostrare con le ombre reali e quelle di portata. E questo lo posso fare anche con i colori: un grigio per esempio può servirmi per mantenere una distanza.
Per me il fondo della tela non è bianco, perché il bianco è non è un colore, ma racchiude tutti i colori. Per me il fondo è trasparente e questa intuizione mi è venuta osservando i tagli di Lucio Fontana, perché l’arte può andare oltre, anche dietro, perché no.

D. Ti piace lavorare con il Blu e le sue gradazioni?
Quello che penso dei colori é legato all’influenza culturale e quindi sociale del significato che diamo ai colori. Il Blu è un colore diplomatico, perché piace a tutti, non disturba. E’ un colore con cui mi sento a mio agio: mi da una sensazione di calma, di profondità, dilatazione e rilassamento.
Ho fatto dei lavori con Penna Bic Blu emulsionata in alcool. Erano dei quadri in cui disegnavo al contrario, c’era una prima stesura di l’alcool, il disegno passava attraverso la fibra e prendeva un’altra forma: questo sfibrarsi permetteva al disegno di gonfiarsi, come un acquerello. Storicamente era associato alla sacralità della Madonna, del resto era prodotto con il lapislazzulo quindi una pietra costosissima. Al tempo si associava il valore etico del soggetto al valore materiale del pigmento utilizzato. Se torniamo indietro con la storia del blu nell’arte è interessante ricordare che i Romani non lo utilizzavano. Successivamente fu molto usato dai popoli barbari, lo realizzavano da una radice tintoria: il cafro, successivamente blu cobalto, aveva un’instabilità chimica, per cui il colore si alterava. Intorno al XVI secolo con la colonizzazione dell’America, avvenne la scoperta di una nuova pianta, l’indigno, si ottenne una nuovo colore, l’indaco, che aveva un’ottima stabilità chimica. Da questo tipo di blu deriva anche la nuance dei nostri blue jeans. Micheal Pastoureu, grande specialista della storia sociale di colori, ha definito il blu il color “gattamorta”.

D. Quali sono gli strumenti del tuo lavoro? Per esempio il pennello è adatto ai materiali industriali?
Si certo lo utilizzo di setola, ma soprattutto di gomma. Le vernici di cui mi servo possono bruciare il pennello classico. Con il pennello non vado solo ad aggiungere, spesso mi trovo anche a cancellare il colore: non è soltanto aggiunto, spesso è sottratto, lavato, diluito. In questo modo posso creare riflessi, suggestioni e dare molto dinamismo alla composizione.

D. Utilizzi più la bomboletta o il pennello? Sono due strumenti che necessitano velocità diverse, o mi sbaglio?
Ma sai io la bomboletta la utilizzo anche nel modo più semplice che puoi immaginare. Molto spesso mi servo del semplice shot, cioè lo spruzzo che si fa sul supporto per fare una prova, questo mi permette di fare piccoli cerchi. Mi permette di fare più strati, anche se dopo devo sempre definire le sbordature per ottenere un lavoro più pulito. A volte lo posso utilizzare il colore anche indirettamente. Mi servo di una tavolozza perché uso un solvente polarizzato che non è debole come l’acetone o la nitro e non opacizza le trasparenze del metacrilato. Scioglie il colore e quando si asciuga è come se catalizzasse il colore.

D. Ma il tuo percorso inizia alla tela, come sei approdato ai supporti plastico/industriali?
Mah, feci delle prove recuperando dei con vecchissimi quadri su tela che non ho mai esposto, applicai sulla superficie dipinta una lastra di plexiglass. Vedevo che l’effetto delle due elementi combinati mi piaceva e cominciai ad utilizzarlo come supporto.

D. Quanto conta la luce nel tuo lavoro?
La luce è tutto. Da qui nascono i colori e i riflessi. Per vedere al meglio molti dei quadri sia in plexiglass che in Duralar servirebbe una luce fortissima ma non diretta, piuttosto diffusa. In questo modo rimane costante la forza delle metallizzazioni. Ma vorrei sottolineare che i miei lavori li guardo e li penso con la luce naturale.

D. Dietro alla sperimentazione industriale si avverte la tradizione
Si, perché mi servo dei materiali dei graffitisti bombolette, cutter, pellicole adesive, ma l’approccio ha una matrice accademica. I graffitisti degli anni Sessanta a New York lavoravano all’alba nei depositi della MTA imbrattavano e mettevano i loro nomi, ma tecnicamente queste bombolette avevano un carattere primordiale…il mio metodo è senza dubbio più vicino al contesto dell’accademia. Per questo motivo ritengo che un artista contemporaneo non può prescindere dalla conoscenza della storia dell’arte. Ripercorrerla nelle sue tappe e osservarla con gli strumenti adatti permette riflessioni e spunti sempre attuali.

D. Quale è per te il senso della pittura?
Ti faccio un esempio. Se osservo un Crocifisso di Masaccio ho subito la sensazione di vederlo incastrato nel capo, c’è un errore prospettico, ma funziona lo stesso, anche se non ha un’esplicita aderenza alla realtà. E questa autonomia, la pittura la trova dentro se stessa. Perciò nel Novecento diventa molto autoreferenziale. Oggi c’è una sorta di pretesa da parte degli artisti di coltivare nelle opere la politica, valori sociali o l’ecologia, ma non ci riuscirà mai. L’arte è sempre autoreferenziale, non è il suo campo, perchè l’arte è sempre stata esclusiva.

D. Arrivi a Roma da Campobasso per cominciare l’Accademia, come ti accoglie Roma…
Arrivo a Roma a settembre del 1994, affittiamo una casa con attico a San Lorenzo in Via dei Volsci con altri amici. Il quartiere era in un momento vivissimo, pieno di entusiasmo ed energia. Da li andavo in Via di Ripetta. Non ho avuto un impatto proprio positivo con l’Accademia, ma nonostante ciò non ho mai mollato il mio amore per l’arte e la pittura. Sin da bambino dipingevo tantissimo. In seguito ho collaborato con Oliviero Rainaldi e mi ha indirizzato su alcuni aspetti della metodologia del lavoro, in particolare mi ripeteva spesso che se avessi lavorato tanto avrei sempre ottenuto un autoritratto. In un modo o nell’altro il lavoro ti rappresenta sempre, come la calligrafia.

D. Altre esperienze significative? Un viaggio in particolare….
Per me è stato molto importante fare un viaggio in Inghilterra per una borsa di Erasmus. Fui molto colpito dalla collezione della Tate Britain, le opere di Blake e Turner furono una rivelazione. Turner ha nella sua pittura un evidente concetto di modernità, il suo colorismo estremo, che elimina tutta la pittura di dettaglio, lo rendeva al tempo avanti di cento anni. Per me è una sorta di padre putativo.

D. Cosa pensi della Cryptoarte?
Può essere molto interessante, come l’incisione, dipende come viene affrontata e cosa vuole raccontare. Bisogna avere sempre una certa dose di apertura mentale alle novità. Nella storia dell’arte a ogni cambiamento tecnico importante corrisponde un adattamento della collettività etico ed estetico. Fino all’Ottocento il ritratto implicava la rappresentazione della figura intera, il committente non poteva mai essere rappresentato se non nella sua completezza. Degas su questo è stato un rivoluzionario perché le sue ballerine presentano i corpi ma non nella loro interezza. Nessuno aveva mai rappresentato solo il retro della schiena o la nuca seppur acconciata. La fotografia gli permise di mettere in discussione la posa pittorica. La macchina fotografica ha permesso al pittore di seguire nuove strade. Oggi possiamo seguirne nuove figlie del nostro tempo.

15 Gennaio 2022

Alessandra Caponi

Alessandra Caponi nasce a Roma nel 1981. Dopo la laurea in Storia dell’Arte Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tre, si specializza sull’arte degli anni Sessanta a Roma. Collabora con Gino Marotta per cinque anni nella gestione dell’archivio e organizzazione delle mostre. Lavora con collezionisti privati nella realizzazione di archivii cartacei e digitali. Recentemente ha scritto il testo critico “Committenza pubblica e privata: cinema, teatro, arredamento 1940-1958” in occasione della mostra Leoncillo. Materia radicale presso la Galleria Lo Scudo di Verona. Vive e lavora a Roma.

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