Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

James Lee Byars – Manca l’oro di loro

L’artista, tra tutti quelli che ho avuto la fortuna di incontrare, che usò più che mai il color oro; nel suo vestire, nei suoi inviti, nelle sue opere, nelle sue installazioni e nelle sue edizioni artistiche.
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Fig. 1 The Death of James Lee Byars

Se si potesse tornare all’Età dell’Oro, essere cittadini di un altro mondo di sogno, allora immaginerei un paese utopico, tutto colorato di blu, e beh! È un mondo celestiale (spirituale), che chiamerei Pittilandia e il popolo che lo abita i Pitti, perché dovrebbero essere tutti dipinti di blu.

E io qui in Northumbria sarei il re dei Pitti con capitale Pittavia (la vecchia Todi) e sarei sicuramente l’erede regale di una lunga discendenza matrilineare.

Ops! È un Déjà vu storico, un ready made antropologico, un fatto tutto vero, solo che bisogna spostarsi nel tempo e nello spazio, esattamente nel 100 d.C., oltre il Vallo di Adriano in Scozia, dove risiedevano gli invincibili celti-vichinghi, guerrieri fortemente tatuati di grafemi blu… performers ante litteram!

Fig. 9 Pictish Celestian Warrior
Fig. 10 Pictish Celestian Warrior

Nei primi anni Settanta del secolo scorso, a Roma, a Trastevere, al Vicolo della Renella, ebbi il mio primo studio, insieme a Gianni Dessì , Domenico Bianchi e a Roberto Pace; il vicolo incrociava a metà la Via del Moro proprio addosso al bar del Moro, che aveva come insegna una vecchia enorme targa ovale sgraffiata dal tempo, con raffigurata una sorridente abissina scollacciata che offriva ad un pettoruto bersagliere una “tazzulella” dell’Antico Caffè del Moro.

Fig. 2 Insegna Antico Caffè del Moro Roma

Il barista sedicenne, Maurizio, curioso figlio del proprietario, si affezionò a noi, ragazzi vogliosi peintres bohemien e ogni mattina, per sfottò, quando ci vedeva arrivare, si metteva a cantare a squarcia gola, in quel crocicchio di strette vie, così poco intime.

Cantava ridendo le strofe originariamente gorgheggiate da Fausto Leali, in dialetto romanesco: <<Pittore, ti voglio parlare, mentre dipingi un altare, io sono un povero ne…* e d’una cosa ti prego: pur se la Vergine è bianca, fammi un angelo ne…>>

Queste due storie fanno da prologo introduttivo a quell’affascinante artista americano performativo ermetico che ho incontrato più volte tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, James Lee Byars (Detroit 1932 – Cairo 1997).

Per far comprendere meglio il “comportamentalismo” artistico di Lee Byars al pubblico italiano, dirò che si può assimilare a poetiche proprie degli anni Ottanta affini a quella di Gino De Dominicis e a quella di Luigi Ontani; artisti “regali”, cioè che non smettevano mai i panni dell’artista, in privato come nel pubblico…

Alto e magro, modi affabili e calmi, vestiva abiti su misura e tutti monocromi; dal nero, alcune volte al bianco, oppure il rosso, e quasi sempre l’oro, (sono i colori delle fasi alchemiche nigredo, albedo, rubedo, citrinitas); in testa sfoggiava una bandana nera che spesso era sovrapposta da tube di varie forme… uno strampalato alchimista del diciannovesimo secolo.

Fig. 3 James Lee Byars Gold Art

James fu l’artista, tra tutti quelli che ho avuto la fortuna di incontrare, che usò più che mai il color oro; nel suo vestire, nei suoi inviti, nelle sue opere, nelle sue installazioni e nelle sue edizioni artistiche.

La prima volta lo incontrai in occasione della sua esposizione personale alla Galleria di Cleto Polcina di Roma a Piazza Mignanelli e fu nel 1989; visitai la sua impeccabile installazione dedicata a Cleopatra e presentata da A. B. Oliva; mentre uscivo il gallerista mi presentò di sfuggita e Lee Byars ci tenne a donarmi un busta bianca.

 

Fig.4 Achille Bonito Oliva Cleto Polcina e Bruno Ceccobelli – 1988 Caffè Florian Venezia

Non aprii subito la busta, ma capii dal peso e dal rigonfiamento in basso che c’era all’interno qualcosa di strano, un bel dono… Conteneva tondini di plastica della grandezza di una moneta da dieci cent. di color oro.

Ecco l’artista novello Re Mida, prototipo del vero alchimista, paradigma del pensare bene, dire bene, fare bene: tantoché quest’arte trasmutativa poteva far diventare “oro” tutto quello che “toccava” e lui, Byars con facilità e felicità di un bambino lo regalava, con affetto e per buono auspicio, anche se di plastica e non firmato.

Fig. 5 Monetine d’oro di James

La seconda volta che incontrai James era nel 1990, ci trovavamo in montagna, ero in vacanza d’estate con tutta la famiglia Cate, Auro e Celso, a Sottoguda in provincia di Belluno, lui venne con sua moglie la vispa e graziosa Wendy Dunaway, li portò da me il mio amico artista italoamericano Maurizio Pellegrin e la sua compagna di allora Anita Sieff.

Era un giornata piena di luce e gioiosa e per il pranzo eravamo all’aperto, una tavolata di otto commensali; io, James e Maurizio intenti a parlare d’arte.

Byars, attirato dai simboli, soprattutto quelli orientali, aveva frequentato il misticismo buddhista e in Giappone si era appassionato al “Teatro Nō”, si complimentava con me per la mia esposizione delle 777 piccole icone al Caffè Florian di Venezia durante la Biennale del 1988.

Fig. 6 Lee Byars all’esposizione ”Figli d’api” di Bruno Ceccobelli al Caffè Florian di Venezia, 1988

Si era tutti al primo piatto, ed ero affamato, difronte ad un mucchio di pasta al sugo con copiosi ingredienti, da buona forchetta iniziai prima degli altri.

Quando eravamo “in fieri” nello sfamarci; a metà della pietanza: colpo di scena, un fatto incredibile creò un black-out temporale per cinque degli astanti e uno sdoppiamento dimensionale per gli altri tre.

Cosa successe? Wendy, con una velocità incredibile, senza nessun nesso discorsivo con il momento o con una mia provocazione gettò una perla bianca sferica nel mio piatto che s’immerse nel sugo, io con altrettanta regia agii in velocità asportai la perla dal piatto depositandola nella tasca destra dei miei pantaloni.

Contemporaneamente ipnotizzato da quell’imprevisto mi incantai a guardare gli occhi fissi di Wendy e di James che mi intimavano il silenzio su quell’evento fenomenico segreto.

Il mistero è: come fu possibile che un gesto così eccentrico e plateale avvenisse sotto i dieci occhi delle altre cinque persone in un così stretto cenacolo e non fosse notato né distinto, tanto che la conversazione e il pasto seguirono con usuale familiarità?

Arti magiche o grandi manipolatori… i Byars mi stupirono favorevolmente.

Fig. 11 James Lee Byars ”Golden tower” Venice

Anni dopo ritrovai la famosa perla un po’ usurata nel portaoggetti della mia macchina, tenni sempre con me la perla fatta anch’essa di plastica, conscio nel mio subconscio scaramantico del suo valore simbolico di purezza, saggezza e perfezione.

La perla è simbolo del processo alchemico: un corpo estraneo (“pulsioni inferiori” o un problema) entra nell’ostrica ed essa naturalmente per non infiammarsi (ammalarsi o arrendersi) la riveste di un carbonato di calcio, in forma cristallina (si auto realizza, si autocura, valorizzando) e la rende preziosa per il prossimo.

Alla Galleria di Heinz Holtmann, Colonia 1991, ci fu una mia personale e riapparse la coppia James e Wendy, per me ospiti graditissimi anche perché famosi e chiacchierati, qualcuno però, trancher, appena li vide mi mormorò sottovoce: <<è arrivato Zorro>>.

Fig. 7 James Lee Byars

James Lee Byars era un vero Zorro dell’Arte Contemporanea cercava di darci immaginazione e spirito e oro rubandolo al marchio del mercato e regalandocelo poi con l’esempio del suo comportamento semplice, amicale, ingenuo.

Ecco la visione alchimista dell’arte e dell’essere artista magicien: farsi un mondo proprio e abitarlo anche se fuori dallo spazio e dal tempo a lui coevo… viva Pittilandia.

L’arte serve a trasformare attraverso forme e colori, prima se stessi e poi chi fosse, solo per caso, in sintonia con queste, senza ragioni di censo, o di nazione o di etnia, o di religione, ebbene, allora tocca a noi, poeti della vita, irrimediabilmente sempre in un’altra dimensione creativa, detta anche non ordinaria, iniziare a “dipingere” il nostro “angelo negro”, il nostro inconscio.

Fig. 8 James Lee Byars ”La perfezione non si verifica mai”

Al Pirelli HangarBicocca di Milano, nella prossima stagione artistica 2023-2024, grande retrospettiva di James Lee Byars, il nostro vero oro!


* “ne…” non vorrei offendere i semplici conformisti

15 Luglio 2022

Bruno Ceccobelli

Bruno Ceccobelli nasce a Montecastello di Vibio, (PG), il 2 settembre 1952. Vive e lavora a Todi. Deve molto all’artista Toti Scialoja, col quale si diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ama e studia artisti come Malevich, Kandinskij, Klee, De Chirico, Brancusi, Beuys, Miró, Dalí, Tàpies, Magritte. Completa la sua eclettica formazione giovanile con lo studio delle filosofie orientali Zen e Taoismo. Dalla seconda metà degli anni Settanta fa parte degli artisti che si insediano nell’ex-pastificio Cerere, a Roma, nel quartiere San Lorenzo, un gruppo di creativi poi noti come “Nuova scuola romana”. La sua ricerca è inizialmente di tipo concettuale, per poi giungere a un’astrazione pittorica che approda a un vero e proprio simbolismo spirituale.

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