Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

Il muro come incisione nel non-finito di Sten.Lex

Da anni hanno abbandonato un immaginario pop figurativo per dedicarsi a composizioni astratto geometriche in bianco e nero
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D. Vorrei partire dal vostro ultimo lavoro…
S. Sono due stampe con la Galleria Varsi di Roma, 56 Filii. Per noi è un lavoro particolare, perché abbiamo cercato di riprodurre quello che abbiamo fatto sui muri e riportarlo su quadro. Una sorta di stencil poster portato sulla stampa. E’ stampata con una vernice vinilica nero su nero, inizialmente l’acquirente ha l’impressione di ricevere una superficie monocroma. In seguito, con alcuni strumenti ha la possibilità di toglierla fino a far apparire un’immagine, così da offrire l’idea del processo creativo di cui ci serviamo quando lavoriamo su muro. Questo tipo di stampa ha aiutato a capire la tecnica che utilizziamo. Spesso infatti, per chi non conosce il nostro lavoro, è un po’ difficile da comprendere, invece in questo modo, anche loro hanno potuto sperimentare cosa significa creare uno stencil poster. Lo Stencil Poster è un processo creativo che ormai utilizziamo da più di dodici anni, ed è sempre stato il nostro marchio di fabbrica. Al pubblico a volte può essere un po’ difficile da comprendere perche l’idea dello stencil è comunemente immaginata come il creare una matrice per poi usarla per la riproduzione dell’opera. Invece noi utilizziamo la matrice per creare l’opera, ma includiamo un processo di creazione e distruzione allo stesso tempo. Nel nostro lavoro la matrice invece di essere utilizzata per creare i multipli viene distrutta e incorporata nell’opera.

D. In quale modo è avvenuto il passaggio dal muro alla tela e quindi dalla strada al museo?
L. Nel nostro caso è avvenuto in modo abbastanza naturale. Le prime mostre nelle gallerie e nei musei sono avvenute contemporaneamente al nostro inizio in ambito internazionale. Con il passare del tempo gli organizzatori dei festival proponevano anche l’esposizione nei musei e gallerie. Non ci siamo mai opposti alle istituzioni, tutt’altro. Infatti recentemente abbiamo avuto la possibilità di esporre alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma e abbiamo colto subito l’opportunità, tra l’altro oltre alle tele abbiamo avuto la possibilità di lavorare in loco sulle pareti del chiostro.

D. Avete cominciato molto giovani. Come erano quegli anni e il contesto dei primi lavori…
S.L. Noi non abbiamo un background come molti streeartist dei graffiti writing, quello ha un aspetto e approccio più adolescenziale, questo non vorremmo più metterlo dell’adolescenziale. Al tempo Roma era bombordata dal writing e quindi sui muri della città si trovavano più che altro scritte. Noi a quel tempo avevamo circa venti anni e ci rendemmo conto che sui muri non erano mai riprodotte delle immagini. Quando apparvero ci rendemmo conto che avevano un’efficacia maggiore. Abbiamo cominciato facendo degli stencil su dei quadretti, a casa o studio e poi ad ingrandirle. Cominciammo a farli vedere nella cerchia dei nostri amici e ci rendemmo conto che piaceva molto. In effetti avevano un aspetto più innovativo e quindi cominciammo a sperimentarlo in diverse soluzioni. Le prime immagini erano legate al cinema e ai B-movies, icone pop, ma non le più note. Nello scenario della stencil art si lavorava in maniera molto veloce e immediata, doveva avere una certa rapidità quindi doveva avere un po’ il colore e il deisgn dell’adesivo…una sorta di sticker art che girava alla fine degli anni Novanta. Si tendeva a usare un linguaggio più pop anche per essere riconoscibili.
Con il tempo abbiamo scoperto che ciò a cui stavamo approcciando, cominciava a diventare interesse anche in altri ragazzi.. Ma soprattutto su internet vedemmo che questa cosa si cominciava a diffondere anche nel contesto internazionale. Al tempo non c’erano i social network. C’era un sito internet di riferimento che si chiamava Stencil Revolution e da qui abbiamo cominciato ad interagire anche con altri stencil artist. Ci siamo resi conto che in tutto il mondo c’era un fermento. Poi nacque un sito americano che si chiamava Wooster Collective che raccoglieva e raccontava tutti gli interventi in strada principalmente in Europa e negli Stati Uniti. Con il tempo è diventato più internazionale e per più di dieci anni è stato il punto di riferimento dell’arte in strada a livello globale. Con la nascita dei socialnetwork è cambiata la modalità di diffusione, mentre al tempo tutto stava avvenendo in maniera spontanea e meno connessa di come avviene oggi. I siti internet hanno permesso di dare vita ad una rete quando l’arte era molto legata all’individualismo, ciò permise conoscersi e crescere. Spesso un artista poteva influenzare un altro e far interagire i vari filoni: in questo modo si sono create delle correnti nelle correnti ed ognuno è stato d’ispirazione all’altro.

D. Perché un ragazzo decide da un giorno all’altro di sentire l’esigenza di lasciare un segno o una propria traccia sul muro?
E’ stata una cosa casuale, forse ludica e un po’ incosciente. Ci divertivamo molto e non avevamo interesse per il mercato dell’arte, piuttosto era una modalità spassionata e libera. Allo stesso tempo era anche un modo per ridisegnare il quartiere in cui vivevamo. Tra gli aspetti divertenti c’era sin dall’inizio il fatto che le cose lasciate su muro avevano una durata, anche illimitata. Ancora puoi oggi trovare tra i muri della città degli interventi che risalgono a dodici anni fa.

D. E poi le icone pop si diradano e diventano altro…
Si questo cambiamento avviene contemporaneamente ad un nostro interesse per la fotografia. I personaggi riprodotti con il tempo non sono più icone del cinema, ma parenti, amici o persone sconosciute trovate nelle fotografie dei mercatini.

D. Degli anonimi…
S. Si esatto, si passò da una persona riconoscibile a una irriconoscibile. Se prima il passante poteva vedere la riproduzione di un grande di un attore famoso e avere la soddisfazione di riconoscerlo, questi personaggi anonimi invece destavano maggiore curiosità: il passante pensava di riconoscerli, e quindi attribuire il volto a un personaggio per poi non trovare alcun riferimento visivo di riconoscimento. Inizialmente scattavamo foto dei nostri amici, con il tempo abbiamo cominciato a sfogliare e poi collezionare gli annuari dei college americani degli anni Sessanta e Settanta. In queste fotografie degli annuari notammo che quasi nessuno guardava fisso l’obiettivo, anche per una timidezza nei confronti della macchina. Una modalità molto lontana rispetto alla fotografia di oggi in cui ci si mette in posa rispetto ad una ritrosia nel guardare.
L. Questa attenzione per la fotografia è arrivata anche nel momento in cui facendo gli stencil in strada, si è passato dal bianco e nero a un’immagine resa con una serie di puntini: l’effetto cromatico ottenuto era quello della mezzatinta, un effetto che si utilizzava anche nelle riviste degli anni Sessanta e Settanta. Una fotografia che da vita ad un effetto ottico/percettivo della vicinanza e della lontananza.

D. Ma come fa il bianco e nero non sono colori complementari, e allora come avviene questo cambio di percezione dell’immagine?
S. Non è un discorso di colori complementari, è più che altro un effetto ottico, soprattutto nei ritratti. Da lontano si ha questo effetto di scala di grigi, mentre da vicino predomina il nero.

D. Come nell’Optical Art?
Si, è comunque un filone che ci interessa. Ma allo stesso tempo i lavori di Frank Stella, di Sol Lewitt e Dorazio sono stati un elemento importante nel nostro immaginario. Allo stesso tempo il nostro approccio non ha un riferimento diretto, noi abbiamo lavorato molto da autodidatta seguendo le suggestioni nate nel corso delle nostre esperienze.

D. In seguito la vostra poetica vive una nuova stagione, il figurativo diventa non figurativo. Come è avvenuto questo cambio di rotta?
S.L. Anche questo passaggio è avvenuto in modo naturale. Anche i ritratti iniziali erano scomposti in linee, graficamente modificati. Con il tempo le forme si sono diradate, i rombi e le linee hanno preso il sopravvento. Si, il nostro lavoro è cambiato di nuovo. Sono dei paesaggi industriali con un aspetto più geometrico e i paesaggi urbani dall’aspetto labirintico. Allo stesso tempo, sono composizioni che non hanno una matrice che parte dalla realtà. I titoli dei nostri lavori sono comunque evocativi e benché abbiano un aspetto astratto, cerchiamo di identificarli con un titolo ben specifico partendo da una nostra suggestione iniziale. Ma lasciamo allo spettatore la libertà di leggere ciò che vuole.

D. Bè ma questo è il percorso di molti pittori. E se qualcuno vi definisse così? Vi creerebbe una sorta di fastidio?
S.L.: (ridono) No, anzi ci piace. Ovviamente utilizzando una tecnica diversa. Ma ci piace essere definiti in primo luogo incisori, perché spesso il nostro lavoro va in quella direzione. I nostri lavori sono comunque pannelli di legno che come il pittore, vengono costruiti, imbiancati. Il lavoro vero alla fine è quello dell’incisione diretta sul legno o sul muro.

D. Il vostro sodalizio comporta sin dall’inizio un lavoro a quattro mani? Ognuno ha un ruolo specifico nella realizzazione?
Diciamo che seguendo vari filoni, può succedere che uno dei due ne segui e sviluppi uno viceversa, ma spesso ci sono delle intuizioni che avvengono nel corso dell’opera e interagiscono tra loro. C’è una fase di progettazione che parte da un lavoro dove mescoliamo della scansioni per poi confrontarci su un disegno finale.

D. I lavori su muro hanno una componente di casualità?
S. La fase finale dello stencil non è mai identica a quella iniziale. Ma dal punto di vista tecnico nella fase della realizzazione non possiamo improvvisare perché il nostro lavoro è molto meticoloso. Ad esempio in una prima fase decidiamo anche di tagliare delle parti prestabilite Se alcuni artisti di murales realizzano il lavoro in due giorni, noi chiediamo sempre più tempo, anche perché la nostra tecnica è legata molto agli agenti atmosferici e quindi se la carta subisce dei danni dovuti alla pioggia o al vento siamo condizionati.
L. Invece diciamo che a volte nella sperimentazione di alcuni lavori è capitato di ottenere effetti che non avevamo previsto. In occasione di una mostra mettemmo delle matrici tra due vetri: erano disegni piccoli, ognuno faceva il suo, poi le composizioni venivano unite e in seguito ingrandite. Avevamo alcuni dubbi sulle modalità di esposizione, ma poi parlando con i corniciai e gli addetti all’allestimento, ci venne consigliato di inserire uno spessore. Con una specifica posizione dei faretti apparvero delle ombre suggestive che donavano alla composizione un effetto tridimensionale. Un risultato inaspettato e una bella sorpresa!

D. Che bella l’imprevedibilità del quadro…
S.L. Assolutamente

D. Il vostro lavoro è collaudato sul bianco e nero, ma ci sono dei lavori realizzati con altri colori?
S.L. Si, lo abbiamo fatto, principalmente in quadricromia, sia nei ritratti che utilizzando degli spray trasparenti, soprattutto sulle tele. Sul muro, per noi, il colore denota una maggiore complessità: è come nella stampa ogni colore è un’incisione, una matrice. Di solito ci limitiamo al bianco e nero lo facciamo anche per una questione di tempi. Tra l’altro otteniamo una maggiore efficacia del segno, ha una maggiore semplicità visiva.
Però nella nostra produzione dei muri ce ne è solo uno a colori per un Festival a San Pietroburgo. Invece abbiamo fatto una serie di quadri, si parte dal lenticolare usando l’idea del cambio dell’immagine. Un’altra è stata realizzata con la sovrapposizione dei colori. Si il lavoro a colori per noi è più complesso, ma è anche vero che utilizzando ad esempio i tamponi per i timbri, abbiamo cominciato a servirci dei colori primari della stampa.

D. E avete mai lavorato con il blu?
S.L. C’è un muro blu a Torpignattara a Roma. Ci piaceva l’idea di partire da un disegno piccolo su foglio e ingigantirlo su un palazzo e quindi ci divertiva l’idea di replicarlo in grande. Venne realizzato con una penna blu e rispetto ai lavori astratto-goeometrici, ha un aspetto forse più pittorico-figurativo. Sembra quasi un albero.
D. Nei vostri lavori c’è un interesse evidente per il non-finito, credo sia una componente importante…
L. Si assolutamente. Spesso da parte nostra c’è stata spesso la voglia di lasciare l’opera incompiuta, o meglio nel nostro caso direi non svelata. A volte non è proprio ben capito, ma fa parte integrante del nostro lavoro. In passato e tutt’ora la parte del deperimento dell’opera è un fattore fondamentale. E’ anche vero che con il tempo questo elemento è stato un po’ ridotto perché si tratta di un medium spesso non proprio semplice da gestire. E’ emersa la necessità di venire incontro anche alle esigenze degli abitanti del quartiere. Spesso le strisce di carta, anche di venti metri, cadono a terra dopo una pioggia e possono creare disagio a chi abita nei pressi del muro. Ma è anche vero che questo permette al nostro lavoro di avere più fascino, diventa quasi un’opera viva, che dal punto di vista scenico, ma anche fotografico, ha tutto il fascino di un’opera che cambia con gli agenti atmosferici, invecchia lentamente e fa vivere con la città. Quando abbiamo inaugurato il muro di Garbatella non era totalmente svelato, con il tempo la carta ha cominciato ad aprirsi e gli abitanti delle vie circostanti pensavano che il lavoro si stesse distruggendo.

D E la critica questo lo ha capito?
S. Beh spesso facciamo in modo che in un testo critico o un’intervista venga spiegato in modo chiaro il processo di realizzazione, dicendo che non è solo processo creativo ma è parte dell’opera. Spesso per la maggior parte degli artisti il processo rappresenta un fattore che può essere anche non essere svelato al pubblico rispetto al risultato finale, nel nostro caso il procedimento di realizzazione è fondamentale.
L. Nel collezionista il non- compiuto può generare una serie di problematiche. Immagina di scegliere e comprare un pezzo poi consegnato in un aspetto diverso, perché può perdere i pezzi durante il trasporto. E’ un’opera che comunque cambia e chi l’acquista deve essere al corrente del fatto che con il tempo la sua opera può assumere un aspetto diverso.

D. I materiali utilizzati sono sempre gli stessi?
L. Alcuni, come le colle, sono sempre gli stessi. Abbiamo notato nel tempo un incremento dei prezzi di mercato, del resto in passato erano più venduti, mentre ora si trovano con maggiore difficoltà. Le vernici possono essere diverse anche perché spesso sperimentiamo superfici diverse dal muro. Per esempio sul metallo utilizziamo gli smalti, o in altre superfici vernici bicomponenti.
S. Inizialmente utilizzavamo lo spray. Poi abbiamo capito che sia sui palazzi che nelle tele potevamo dipingere con il rullo ottenendo così un effetto più piacevole. Lo spray lascia un pulviscolo, come una sorta di rumore nel disegno. Mentre il rullo offre una maggiore compattezza della campitura rendendo la superficie più vicina alla stampa ad inchiostro. In questo modo sul muro possiamo conseguire l’effetto che otteniamo sulla stampa.

D. La serie delle composizioni geometriche hanno moltissimo ritmo, quasi sonoro.
L. Si è possibile. Ma più che altro il centro è nel realizzare delle geometrie strutturate sulla non ripetizione degli elementi. Anche in questo c’è sempre l’idea di rompere il pattern e non ripeterlo in continuazione come un modulo. Ci sono delle interferenze e rotture geometriche che danno vita ad un cortocircuito inaspettato e ritmico.

D. Alcuni denotano una successione di piani, quasi a dare una leggera tridimensionalità.
S. Questo aspetto c’è in alcuni paesaggi industriali: le linee si intersecano, e a volte ci sono piani che sembrano stare più avanti, altri più indietro. Non c’è un punto specifico e assoluto in cui guardare e il questo genera movimento al pezzo.
L. Sempre di più sta nascendo in noi la voglia e la curiosità di uscire piano piano dal pittorico per sperimentare qualcosa che sia più vicino alla scultura, chissà. Siamo sempre aperti alla sperimentazione.

D. Il vostro lavoro è molto legato al tema del viaggio. Avete viaggiato moltissimo e mi chiedevo se la posizione geografica del muro influenza la scelta del soggetto che volete rappresentare?
L. Molto dipende da quanto tempo abbiamo a disposizione nella realizzazione di un muro. A volte ci è capitato di avere una settimana e quindi avere un certo limite. Prima della pandemia abbiamo cominciato delle residenze di artista in giro per il mondo per mezzo di gallerie che ci hanno dato la possibilità di realizzare il murales ma soprattutto di rimanere più tempo. In questo tempo puoi senza dubbio conoscere al meglio la cultura, il disegno, la grafica del luogo.
L. A volte è successo che il nostro lavoro, con lo stesso pattern, ma posto in un luogo diverso, sia diventato parte integrante del luogo suscitando negli abitanti un riconoscimento appartenente alla propria cultura. Alcuni pezzi più geometrici ad esempio in Sardegna sono stati letti come gli arazzi della tradizione tessile, ma gli stessi in Messico sono stati letti come delle suggestioni vicine alle incisioni del passato o in Cina un legame tra lo stencil e il lavoro su carta e china.
S. Nonostante ciò l’artista ha un background culturale e sociale che non può cambiare a seconda del luogo. Soprattutto ora con la globalizzazione è importante mantenere le nostre radici anche se le nostre opere fanno parte di una cultura più ampia che non riguarda solo, Roma, l’Italia.
L. E inoltre è complesso andare in un luogo diverso dal tuo e pretendere di dover trattare un argomento che non hai vissuto e non ti appartiene. Ci sono artisti che lo fanno e in maniera critica si occupano di una specifica tematica sociale del luogo. Del resto l’arte contemporanea sta andando in questa direzione, raccontare i cambiamenti climatici, la pandemia e altro. Puoi trovarti al lavorare su muri dove in tempi diversi lavorano artisti di diversa nazionalità: ognuno con la propria storia, traccia un segno che rappresenta un contributo lasciato alla città e non deve per forza avere una tematica rappresentativa. Ma l’arte secondo me non deve essere sempre didascalica e immediata nel proprio riconoscimento.

D. L’esperienza più significativa su muro o la sfida più grande
S. Forse uno dei ritratti in Norvegia. Era il primo che facevamo con lo stencil poster e non avevamo idea del risultato. Pioveva tantissimo ed eravamo agli inizi. E quando si viaggia e si lavora in alto ci sono tutta una serie di inconvenienti come guidare mezzi pesanti, organizzare un lavoro a dieci metri, gestire i fattori climatici…serve anche una dose di incoscienza.

D. Secondo voi Roma è ancora una città che vi ascolta e vi accoglie?
L. A mio parere non c’è mai stata tutta quella attenzione che abbiamo notato nelle altre città internazionali come Parigi, Londra o Città del Messico. Nonostante ciò molti ci hanno teso la mano e permesso di fare cose interessanti. Bartolomeo Pietromarchi è stato il primo e ci ha dato a disposizione una grande muro al Macro di Via Nizza. Da tempo è nata una bella collaborazione le galleria Wuderkammern. Allo stesso tempo ci siamo sempre sentiti accolti bene in Francia o in Germania. Sanno comprendere a pieno i vari filoni che ci sono in giro. In Italia vi sono decine di mostre non autorizzate di Banksy e poco approfondimento sui singoli artisti italiani che hanno fatto parte e tutt’ora contribuiscono alla storicizzazione della “street art” internazionale.

D. Ma perché allora la street art spesso è destinata alle periferie? Roma è sempre un salotto barocco?
L. Perché si pensa spesso che la sreet art debba riqualificare o rigenerare. Pensare che l’arte possa sciogliere nodi e problematiche a cui dovrebbe rivolgersi la politica non è proprio corretto. Le istituzioni spesso commissionano murales a “tema” e questo snatura il lavoro anche di artisti che potrebbero essere impegnati nel sociale. Noi non abbiamo mai sentito il peso dell’impegno sociale perché concepiamo l’arte come qualcosa di superiore alla morale.

D. Quali sono le città in cui la street art ha maggiore ascolto?
Ma un periodo senza dubbio anche Roma. Ma sicuramente Parigi, Londra e altre città. Moltissimi muralisti e di grande livello si trovano in Polonia, per esempio a Katowice dove da più di quindici anni c’è un Festival ormai riconosciuto, Poznan e Gdynia. Quasi la nostra seconda patria.

D. Cosa pensate della Cryptoarte?
L. La conoscevamo già, ora se ne parla tantissimo anche perché ci sono numeri di vendita incredibili. E’ una tendenza a cui lentamente ci stiamo interessando. Non abbiamo idea se sia un fenomeno solo economico o legato al momento ma allo stesso tempo dal punto di vista tecnico denota un aspetto innovativo.

D. Per quale motivo?
S.L. Noi potremmo generare un quadro e da questo generarne un’infinità di combinazioni diverse che danno origine a nuovi quadri. Da un lato può spaventare non avere più diretto controllo di ciò che può avvenire, dall’altro ha decisamente fascino assistere a soluzioni a cui arriveresti in dieci anni mentre il pc in un istante. Abbiamo cominciato a documentarci sull’arte generativa, e abbiamo visto che potrebbe essere molto interessante, anche nella semplice composizione dei colori, soffermarsi su quante innumerevoli possibilità potremmo ottenere.

D. Chiudiamo ritornando alle origini delle origini. Il ricordo di un un’opera del passato vista prima di intraprendere il vostro lavoro, quindi anche legato ad una suggestione dell’infanzia.
L. Le opere nelle chiese romane e gli affreschi di Pompei.
S. Il mosaico della Cattedrale di Otranto.

15 Gennaio 2022

Alessandra Caponi

Alessandra Caponi nasce a Roma nel 1981. Dopo la laurea in Storia dell’Arte Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tre, si specializza sull’arte degli anni Sessanta a Roma. Collabora con Gino Marotta per cinque anni nella gestione dell’archivio e organizzazione delle mostre. Lavora con collezionisti privati nella realizzazione di archivii cartacei e digitali. Recentemente ha scritto il testo critico “Committenza pubblica e privata: cinema, teatro, arredamento 1940-1958” in occasione della mostra Leoncillo. Materia radicale presso la Galleria Lo Scudo di Verona. Vive e lavora a Roma.

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