Rosso è sicuramente emozione, prima di essere cultura, esperienza, simbolo. Rossi sono i capezzoli della madre, i frutti maturi, le labbra dell’eccitazione. Rosso e buio sono le prime percezioni visive del feto, quindi di ognuno di noi, prima di essere partorito. L’arte ma soprattutto il linguaggio visivo si è appropriato del rosso sedimentandovi, civiltà dopo civiltà, significati e valori. Apriamo quindi la dura scorza della storia per passare dai contenuti alla naturalezza, da ciò che deve essere interpretato a quanto, invece è spontaneamente percepito. Tramonto e succosa dolcezza, ferita e morte, sensualità e passione, calore e fiamma: questo è il mondo, primordiale e intuitivo del rosso più vivo e brillante. Anche se i petali dei fiori si guardano solamente, ogni papavero e rosa sembrano essere la voce improvvisa della terra, ogni fuoco ardente il tono imperioso della divinità, ogni goccia di sangue un segno di vittoria o la vergogna del mestruo. I primi rossi dell’umanità nascente sono percezioni tanto elementari quanto fondamentali: l’arte vi torna continuamente, se ne abbevera come a una fonte, senza mai dissetarsi.
L’arte contemporanea non ha nulla d’innovativo è semplicemente più libera, meno codificata; ma s’interroga sui nostri fondamenti , come da sempre è nella natura di ogni uomo, e per questo è allo stesso tempo moderna e classica. E’ un errore di metodo svelare il rosso attraverso gli artisti d’oggi: il rosso ci accompagna da tempi immemorabili ed è questa macrostruttura che dobbiamo approfondire, per vedere poi come l’arte di oggi torna su questo rapporto così antico e vitale.
Perché le unghie laccate di carminio e le labbra rese vivide dal rossetto ci mandano un messaggio sensuale? Sono unghie strappate, segno del martirio e di sofferenza o mani insanguinate che hanno lacerato carni in un rito dionisiaco? L’arte di Nitsch, per non offendere la morale, ne suggerisce un frammento: si ferma al mattatoio del bestiame che ormai è accettato dai più, ma allude all’intero rito che sulla morte della preda scatena le più profonde pulsioni della sessualità. Bacco dio del vino ma anche della danza, ebbro sobillatore e vittima delle stesse partecipanti al rito non è distante dal Cristo. Il Salvatore, in una luce di purezza, lascia straziare le proprie carni perché sia il rosso del sangue a fecondare la via di salvezza. Fustigazione, corona di spine, via crucis, chiodi del martirio e lancia nel costato pompano il sangue fuori dal corpo e lo moltiplicano all’infinito: prendete e bevetene tutti, questo è il mio sangue offerto in sacrificio per voi. Anche il toro del culto di Mitra fecondava e rigenerava, partecipare significava essere immersi, intrisi, coperti, ammantati del suo caldo e appiccicoso liquido vitale. Non è un caso che il rosso sia il colore della regalità, del trionfo e anche della cruenta ritualità mesoamericana che attraverso lo scorrere del sangue teneva in vita l’intero universo.
Il rosso della danza, il flamenco, il tango, la corrida, sono fili evanescenti di un passato che sembra storicamente lontano, ma è quotidianamente presente, dalla religione alla cronaca nera, dagli anniversari bellici alla luce della vittoria fino alle salette buie dall’aria viziata, dove si assisteva, come in un’iniziazione, al cinema dell’horror. Uno spettacolo che annulla il contrasto fra ferita e vitalità, fra decomposizione e respiro spingendoci in un rigenerante abbraccio insanguinato: la logica della razionalità è ridotta a misero espediente per non guardare oltre, per restare volontariamente ciechi all’indifferenziato magma che unisce la morte alla vita in una continua rigenerazione.
Più avanti faremo un cenno a colore e pigmenti, adesso è importante concentrarci sui rossi perché sono due gli estremi che interessano il nostro sistema culturale: un rosso luminoso e brillante, un rosso cupo e profondo. Gli stessi toni che il grafico e designer italiano Eugenio Carmi (1920-2016) ha contrapposto in Senza titolo del 1963 raccontando con due strisce di colore una storia d’infinite generazioni. La sua ricerca astrattista riduce all’essenza il dialogo fra gli opposti, ma – per tradizione -i rossi non brillano in purezza, sono accompagnati e sostenuti: quello profondo dal verde e dai neri, quello luminoso dall’oro e dal bianco. In entrambi i casi, tolta la percezione più spontanea che avvicinava gli antichi raccoglitori alla frutta matura, i moderni consumatori alla lattina di Coca Cola e i maschi di sempre alle zone più erogene – ovviamente rosse – delle proprie compagne, il rosso “rappresenta” per tutti il sangue. L’arte e la cultura, però, non sono un laboratorio d’analisi e diventa banale identificare il colore con quanto scorre nelle vene. Più complesso e sicuramente significativo è l’analisi del rapporto tra sangue e sanguinamento, cioè tra il sangue e la morte e quello tra il sangue e la vita. Su queste relazioni l’uomo s’interroga dalla notte dei tempi.
Gli alchimisti – quindi per oltre un millennio l’intera cultura occidentale – hanno immaginato nel rosso il colore della pietra filosofale, nel Rubedo l’ultima fase della Grande Opera di trasmutazione. Nei tarocchi le figure legate alla conoscenza, la Papessa l’Imperatrice e l’Eremita, vestono di rosso coperto da panneggi verdi o blu. Nella scintillante Ravenna al tempo dei Romani, Onorio, il primo imperatore d’Occidente, fu appellato porfirogenito cioè nato nella porpora; anche questo titolo durò un millennio, fino alla caduta di Costantinopoli e designava il figlio del Basileus regnante. Nascere nella porpora significava essere figli del Rosso: la camera era perfettamente quadrata, interamente rivestita di porfido, coperta da un soffitto a piramide, affacciata sul mare. Acqua primordiale, terra e cielo simbolizzati dal quadrato e dal triangolo, vesti esclusive, tinte interamente di porpora. Il futuro Imperatore racchiudeva già in sé l’intera sapienza. Il rosso cupo è sangue nelle viscere, elemento vitale perché nascosto, conosciuto con gli occhi della mente ma impossibile da svelare senza comprometterne la sacralità. Rosso dentro è vita e conoscenza così come i Cardinali, i porporati, sono il sangue della vera Chiesa. Di contro la compromissione tra dentro e fuori scandalizza, sconvolge ed è stata per moltissimo tempo esecrabile: come il mestruo, lunare, inspiegabile, contaminatore tra il sangue nascosto della vita e il mondo esterno e solare, che non gli deve appartenere.
Se il rosso cupo ci permette di comprendere, quello brillante e luminoso è rosso fuori, cioè sangue versato e ferita; è intriso di morte fisica ma allo stesso tempo elaborazione del dramma vissuto. I meccanismi per dare un senso, una ragione alla sofferenza sono tre. Il capro espiatorio: soffre uno per liberare tutti; il sacrificio estremo di eroi, patrioti, martiri: pochi soffrono per proteggerne molti; il rito sacrificale: la sofferenza è necessaria per il benessere collettivo. In tutte le forme il sangue scorre liberamente, fuori dai propri vasi. E’ un rosso scarlatto, solare, che inonda la terra e si offre al cielo; è violenza che diventa sistema. Non è conoscenza ma azione volontaria: guerra, crocifissione, mattanza. L’orrore di tanta inaudita violenza non è sostenibile, occorre una sublimazione. Il rosso si fa oro, luce, fiamma. Il fuoco diventa sangue astratto, infonde forza, scalda e rassicura: dal sangue dei morti gli eterni fuochi della rimembranza, sotto l’Arco di Trionfo, sull’Altare della Patria, nella sconfinata Piazza Rossa.
Ora passiamo all’arte, solo adesso perché abbiamo compreso che il rosso non è un colore ma un simbolo, che non rappresenta ma ci svela i due grandi arcani del mondo: la vita da contemplare attraverso la conoscenza, la vita da aggredire trovando nella morte la propria catarsi. Infine c’è il rosso che rappresenta ma quella è solo cronaca, una mera descrizione di cui purtroppo anche l’arte fa largo uso.
Un esempio di grande sensibilità al rosso luminoso e al suo valore simbolico è Untitled di Pier Paolo Calzolari nato a Bologna nel 1943; l’artista che è stato avvicinato all’arte povera, ma la lunga esperienza tra i colori e i marmi lucenti di Venezia lo hanno reso studioso e interprete dei possibili significati assunti dal colore e dalla materia. Calzolari guarda ai fondamentali, va oltre le culture, non dà l’impronta delle proprie emozioni ma – con pudica poeticità – mescola latte, legno, petali, tempera e pigmenti per creare vibrazioni e continue scoperte in chi, guardando l’opera, pensava di essere davanti a una semplice contrapposizione di colori.
Salvatore Scarpitta (1919-2007) artista statunitense naturalizzato italiano, figlio di uno scultore siciliano e di madre russo-polacca si trasferisce a Roma aprendo lo studio in Via Margutta dopo aver contribuito come “Monuments Man” della Marina statunitense a porre in salvo per quanto possibile il patrimonio artistico dell’Europa devastata dal conflitto. Realizza strutture tridimensionali concluse, usando tele elastiche impregnate di colla, la sua scelta del rosso non è una costante ma quando decide di usarlo – come in Red ladder n. 2 del 1960 – sceglie una tonalità cupa e ne lega la bellezza all’ombra. E’ un’arte che mescola il rosso della sapienza alla concretezza della scultura afroamericana, ma richiama soprattutto i grandi labirinti sui pavimenti delle cattedrali gotiche, resi improvvisamente tridimensionali e recuperati dalla polvere del tempo. Così lo descrive Pietro Dorazio: “Verso il 1954-58, dopo la nascita della figlia Lola, Salvatore aveva portato nel suo studio tutte le fasce di tela adoperate per fasciare la bambina, e dopo averle avvolte intorno a telai di legno, le irrigidiva con la colla e le dipingeva, monocromo o bianco, o rosso scuro, o blu, lasciando fra un giro e l’altro della fascia delle fessure. Questi spazi vuoti risultavano come dei tagli netti aperti, come delle ferite. Quei lavori mi colpirono molto per la loro originalità e anche per il loro valore in quanto estensione della sua esperienza pittorica: era il primo esemplare passo avanti dopo la provocazione di Burri”.
Alberto Burri (1915-1995), definito dagli Alleati un fascista irriducibile e destinato per diciotto mesi al Criminal camp texano di Hereford per prigionieri non cooperatori, anche se tutti ne ricordano solo il genio artistico aveva una formazione medica. Il suo sguardo artistico era scientifico, percettivo: come per la materia che lavorò con grande rispetto senza forzarla a una rappresentazione – negli anni Sessanta aveva già creato i Catrami, le Muffe, i Sacchi e sperimentava con le Combustioni – così fu anche per la scelta dei colori. Il Rosso Plastica del 1962 non esprime un riferimento culturale ma si pone come presenza al nostro sguardo: ha una propria individualità, una logica interna di equilibri e compensazioni. La materia si apre alla luce, la attrae, la monopolizza come faranno i Cretti pochi anni dopo: il colore rosso le appartiene con fisiologica naturalezza, come una livrea.
Pino Pinelli, catanese del 1938 è – come Alberto Burri – cresciuto in un ambiente lontano dall’arte; di famiglia borghese, tra farmacisti e studi notarili, indaga intuitivamente il processo del linguaggio visivo. Non si cura della rappresentazione, scopre che forme semplici e colori puri stimolano molto di più l’osservatore. Pinelli ha una sensibilità poetica, è un narratore non verbale ed espande il proprio gesto all’intero campo visivo: l’immagine è stata scattata ad Amsterdam nel 2017 mentre allestiva un’esposizione di Disseminations. Il gesto del seminatore è al tempo stesso agrario ed epico: trasforma lo spazio attraverso la volontà solitaria dell’eroe. Anche Pinelli usa il rosso in maniera oggettiva: è uno stimolo, un elemento della narrazione, non un rimando culturale. Così il critico Giovanni Maria Accame descrive la sua arte: “Naufraga, per Pinelli, la concezione di una pittura che riconosce come propria sede l’area delimitata del quadro. Si apre al contrario la prospettiva di una pittura in perenne migrazione, nell’interminabile spazialità fenomenica. Un’uscita dal quadro che non è negazione della pittura, ma una sua differente concezione. Diversamente inseguita ed essa stessa inseguitrice di uno spazio sempre assorbente e mai compiuto, la pittura si contrae per espandersi, sembra negarsi ma per potersi ancor più affermare”.
L’artista argentino di nascita Lucio Fontana (1899-1968) ma di famiglia italiana, sceglie in piena consapevolezza e controtendenza rispetto alla propria formazione. Allievo prediletto dello scultore e medaglista Adolfo Wildt – che ebbe grande fame nel periodo fascista per i suoi busti di Mussolini – padroneggiava la figura e la resa plastica del corpo realizzando monumenti su commissione. Allo stesso tempo, però, amava collaborare con gli architetti del razionalismo e una volta caduto il Regime, liberò la propria arte sul finire degli anni Cinquanta, prima con i Buchi e poi con i Tagli. Anche Fontana, quando sceglie il rosso, lo fa per la forza attrattiva del colore, non per uno specifico significato culturale. Nonostante l’esperienza da volontario nella Grande Guerra, ferito, decorato e congedato, il rosso non si lega al sangue né il taglio a una ferita: è una fenditura, l’inizio di un percorso mentale che si allarga nell’oltre sconosciuto, catturato dalla linea d’ombra che svela l’accesso. Nonostante la delusione del suo maestro scultore, quando Fontana nel 1930 colò del catrame su un abbozzo antropomorfo realizzando ‘L’uomo nero’, vi è grande continuità fra i due artisti. ‘Il concetto spaziale’ è figlio innovativo ma evidente de ‘La maschera del dolore’, l’autoritratto di Wildt: in questa scultura le labbra e le palpebre tagliano la levigata pelle del volto aprendosi a loro volta sull’ignoto.
Abbiamo messo a confronto alcuni artisti che hanno valorizzato il rosso per la sua intrinseca qualità di colore attrattivo, capace di muoversi verso l’osservatore e dilatarsi nello spazio accentuando ancor più il contrasto con l’immobilità dell’ombra, che sembra allontanarsi e preludere a spazi insondabili: Fontana, Burri, Scarpitta; Pinelli invece ne sfrutta il potere dinamico senza riferirsi al passato. Carmi e Calzolari, invece, alludono al suo valore simbolico, di sangue nascosto oppure ostentato; il genovese contrapponendo i toni, il bolognese sostenendone la brillantezza grazie al giallo e al bianco. I primi cercano di renderlo oggettivo, valorizzandone le qualità intrinseche; gli altri tornano invece al flusso atemporale delle emozioni.
Guardiamo adesso una ricerca completamente diversa, che lega architettura, scultura e percezione simbolica del colore rosso: un’installazione dell’artista britannico Anish Kapoor, nato a Bombay nel 1954. Appartiene a una serie di opere pensate per la reggia di Versailles ed esposte nel 2015: un dialogo su invito, una riflessione chiesta all’Artista che – attraverso il suo sguardo liminare d’inglese di origine indiana e medio orientale – sposta il punto di vista portando a nudo la nostra identità culturale. La Reggia francese nelle attuali forme dipende dalla volontà di re Luigi XIV: era residenza di caccia, divenne centro amministrativo e corte del Regno. Ha uno sviluppo orizzontale, giocato sulle simmetrie; gli incroci ortogonali sono dominanti: rappresenta la forza razionale e civilizzatrice della dinastia, che s’impone sulla natura, la domina, la modella, trasformando il disordine in fastosa bellezza. Solo un elemento, sempre per volere del Re, sconvolge l’ordinato svolgersi dell’architettura: è l’irrompere del sacro, la Cappella reale – alla sua quinta riedificazione – che mantiene ed esalta la verticalità della Sainte Chapelle parigina voluta da Luigi IX. Kapoor si accorge che in tutta la Reggia manca la fisicità dell’uomo: sviluppa un nuovo modulo architettonico, quadrangolare; lo pone nella vastità del parco, così com’è la Reggia. In questa alberga la burocrazia, l’esercizio del potere, l’adorazione della regalità, l’esaltazione dei valori. In quella, la scultura di Kapoor, l’organicità dell’essere, l’umanità che è pulsare ritmico di vasi e arterie, orifizi e condotti. Un Settecento che ordina, razionalizza e s’impone sul mondo a confronto con un Terzo millennio che scopre improvvisamente la complessa fragilità dell’essere carne, non Creatore né creatura. Tornano il binomio rosso e nero, l’alchimia e l’antica strada della conoscenza ma anche una contrapposizione netta: la Reggia domina, regola e modifica la natura, l’essere carne e visceri dell’uomo si apre invece allo spazio; è tutto più casuale, asimmetrico, inaspettato ma proprio per questo è vivo.
Molto diversa dall’opera di Kapoor, che attraverso il rosso s’interroga sull’essenza dell’uomo e sul suo relazionarsi con l’ambiente, è l’opera di due artisti siciliani. Per il messinese Giuseppe Geraci, il rosso torna a essere punto medio tra il verde e il nero della materia e l’oro della luce. Per l’altro, il maestro bagherese Renato Guttuso (1911-1987) quando dipinge Funerali di Togliatti riconosce al rosso un valore – oltre a quello politico – d’intrinseca vitalità, che lega il cielo del tramonto alle bandiere e al cuscino di fiori in cui scolora il volto esangue del capo comunista. «Cominciai – ricorda Guttuso – col disegnare più volte il profilo di Togliatti. Circondai il profilo con un collage di fiori ritagliati da alcune riviste di floricultura. Poi cominciai a mettere, attorno a quel punto focale, i ritratti dei suoi compagni, quelli con i quali aveva avuto i più stretti rapporti di lavoro, nell’esilio, in Spagna, in Unione Sovietica. Tenendo conto dei rapporti con Togliatti e non della loro presenza effettiva ai funerali».
Perché andare in terra di Sicilia per ragionare ancora sul rosso nell’arte contemporanea? Per la facilità di trovare un ponte che leghi passato prossimo e presente. L’isola, infatti, nel periodo tardo antico era abitata da Greci – cioè dai Bizantini – e in pieno medioevo i Normanni, da Palermo, miravano alla conquista di Costantinopoli e al titolo di Basileus. E’ grazie alla Sicilia che riannodiamo i fili del tempo per conoscere il rosso nel suo aspetto più alto: essere il sangue dell’universo, non perché agnello sacrificale ma imperatore. Prima di guardare a Oriente, però, soffermiamoci sui pigmenti del rosso: il carminio naturale è ricavato schiacciando minuscoli insetti. Il vermiglio ha invece origine minerale, dal cinabro, che è un composto del mercurio. I Romani lo facevano estrarre nell’attuale Spagna: lavorarlo era molto pericoloso, ha un’elevata tossicità. Anche la porpora era oltremodo costosa e difficile da produrre: si ricavava da molluschi marini. Questa frenesia di ottenere pigmenti rossi era in parte compensata dalla rara ma reale esistenza di rossi naturali, inalterabili, sempiterni: il corallo e il porfido, che erano esclusiva dei ranghi più alti.
Abbiamo visto che per l’uomo il colore rosso corrisponde intuitivamente al sangue. Se celato nella propria sede naturale, il sangue è simbolo di vitalità e conoscerlo spinge verso la sapienza. Se invece è profanato ed esposto alla luce, richiede una giustificazione: bellica, rituale espiatoria. Il rosso stimola una riflessione: è più di ogni altro colore l’essenza della vita; ci si può identificare con il rosso? Con la sua sacralità? Gli imperatori di Roma e Carlo Magno, i Basileus di Costantinopoli hanno vissuto e si sono identificati con il rosso per diventare simbolicamente il sangue e quindi la forza dell’intero universo. E’ una dimensione che da troppi secoli noi occidentali abbiamo smarrito: per comprenderla dobbiamo guardare a Levante e capiremo meglio come il rosso, nell’Asia di oggi, sappia ancora esprimere la vita, la gioia e l’energia cosmica; il rosso, secondo il Tao, è il colore del fuoco.
Lasciamo che siano le parole e i ricordi dell’artista cinese Diana Mei Hing Lo a introdurci nel rosso in Oriente, colore della sacralità imperiale che assicurava equilibrio, serenità e gioia. Un amore che è sopravvissuto al tentativo di Mao d’imporre all’intero popolo cinese la fede nel Partito Comunista, lottando anche contro il rosso degli antenati.
“Vissi la mia infanzia – racconta l’Artista – poco prima della Rivoluzione Culturale, che fu proclamata da Mao nel 1966 e durò fino alla sua morte; ricordo che nell’asilo ci facevano cantare ‘Oriente è rosso, il sole sorge, in oriente Mao Zedong è nato’. Avevo pochi anni e non riuscivo a capire il senso di quelle parole, ma il colore rosso già mi attraeva. Nella nostra casa di Canton (Guangzhou): avevamo alcuni vasi ‘sangue di bue’ e uno fra questi, che era gigante, lo tenevamo al piano terra nell’ingresso; a ogni Anno Nuovo del calendario cinese, mio padre vi metteva un grande mazzo di fiori di pesco. Il grande vaso rimase con noi fin quando le guardie rosse lo distrussero in mille pezzi con le lame delle loro baionette. Ma una volta che fui fuori dalla Cina, già a Macao e poi a Hong Kong, vidi con gioia che il rosso era rimasto dominante: le spose, le insegne dei negozi, i sigilli, le buste augurali, le sale da tè con le colonne in rosso. Ho sempre avuto un legame molto intimo con il rosso: non come il colore del ‘macellaio’, perché non sopporto la vista del sangue, il sangue come dolore. Il mio rosso è un sentimento profondo, è una memoria atavica come il vaso gigante e l’amore di mio papà. È un rosso puro, senza l’aggiunta dell’arancione”.
Assieme a Mei Hing Lo abbiamo selezionato le opere di alcuni artisti orientali, in cui il rosso si esprime come il colore della vita.
Gloria Keh di Singapore: dipinge da più di vent’anni e l’arte le ha dato conforto, guarigione, solitudine e gioia. La sua sensibilità si riflette in un antico proverbio cinese: “Non ci sono errori, solo lezioni”.
Qionghui Zou, cinese di Beijing: è docente d’Arte, laureata all’Accademia di Belle Arti di Sichuan; lavora attualmente al proprio progetto “Dreaming butterfly”, una serie di opere sperimentali dipinte con la tecnica della tempera all’uovo su tele di grande formato.
Zaw Latt, di Mandalay in Birmania Myanmar, astrattista: ama il Taoismo, Lao Tzu e Wu Wei; identifica nella Natura l’essenza della bellezza.
Masashi Harada, giapponese di Hiroshima, astrattista: è Professore all’Hiroshima International University, nella sua estetica coniuga pittura e musica.
Nguyen Van Chung, vietnamita di Hanoi, astrattista: dipinge con pochi colori essenziali usando pennellate larghe e quasi geometriche; quando spunta il rosso è un esplicito richiamo alle antiche radici orientali.
Infine Hiroshi Matsumoto, giapponese di Kobe: concentra la forza del colore rosso in opere di piccole dimensioni, non più grandi di una mano aperta.
Il rosso ci appartiene da sempre, in ogni tempo e civiltà. L’ebbra visione del sangue che scorre spiega, simbolicamente, il nostro rapporto con questo colore. L’essenza della vita: si può intuirla come fanno i sapienti oppure strapparla dalle viscere, in un delirio incontrollato di potenza. O contemplarla, come ci insegna l’Oriente, per sentirsi vibrare dentro l’energia positiva dell’universo.