Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

Arte Cinetica

Il culmine di un pensiero europeo che rifugge simboli, nazionalismi e soggettivismi

Scrivere di Arte Cinetica italiana oggi significa riappropriarsi di una filosofia, prima ancora che di una forma, di un nome o di uno stile. Significa alzare il velo del tempo e scoprire improvvisamente che i nostri padri, o i nonni, seppero opporsi alle rovine e al disastro dei conflitti mondiali costruendo un ideale di fragile bellezza, quasi impalpabile, capace di raccogliere i frammenti contorti e fumanti del passato e riflettere la sete di pace che covava in silenzio nelle loro menti. È straordinario pensare quanto abbiano costruito, elevandosi sopra il dolore, i simboli del potere, la voglia di rivalsa per consegnarci un messaggio straordinariamente nuovo. È infinitamente triste, invece, guardare a cosa è rimasto di quell’intuizione: forme e colori assorbiti dalla banalità di un decorativismo “moderno” cioè geometrico, ripetibile, vuoto di ogni tensione morale.

L’Arte Cinetica, forse, rappresenta il culmine di un pensiero europeo che rifugge simboli, nazionalismi e soggettivismi che hanno avuto la forza di far deflagrare un continente operoso e potente in una miriade di individualità territoriali, di popoli fatti tribù alla continua ricerca del proprio capro espiatorio. Se per un attimo guardassimo la nostra storia recente con occhio disincantato troveremmo solo asserzioni: ognuno capace di esprimere sé stesso, incapace di considerarsi relativo. Individui, stati e correnti artistiche egocentriche; è l’esatto contrario del sogno Cinetico, nato e svanito in un soffio di vita.

Cerchiamo quindi di conoscere questa filosofia attraverso le idee dei suoi pensatori, perché l’Arte Cinetica è prima di tutto una scuola di pensiero che ragiona sul disastro del positivismo e si esprime, oltre che con le parole, attraverso forme e procedimenti creativi. Non a caso appare per la prima volta nella silente e neutrale Svizzera, che protetta dai contrafforti alpini ha cercato di preservare la quintessenza di un’Europa ormai disorientata; dai Cantoni elvetici al grande Nord continentale, dagli antichi confini dell’impero asburgico sull’Adriatico al mondo manifatturiero del Lombardo-Veneto. Sono gli angoli nascosti a preservare lacerti di una maestria operosa, di botteghe e corporazioni, di tradizione e di mestieri in cui l’abilità del singolo si innesta nel processo generazionale e produttivo, nella serialità e delocalizzazione che già avevano contraddistinto la produzione dei liutai e l’arte degli organari.

L’Arte Cinetica ha il proprio battesimo nel 1960 al Kunstgewerbemuseum di Zurigo: la mostra Kinetische Kunst dà finalmente il nome e inizia a catalizzare ricerche più episodiche, che già si erano espresse tra Avanguardie storiche e fertile terreno parigino, dando avvio ad una serie di esposizioni fiorite in pochi anni tra Amsterdam, Copenaghen e Stoccolma per raccogliersi poi nella croata Zagabria e perdurare fino agli anni settanta. Guardare ai singoli artisti è sicuramente un errore di metodo perché l’Arte Cinetica non vuole essere una somma di personalità ma l’espressione di un pensiero che prende forma e concretezza attraverso i singoli autori, e i meccanismi da loro introdotti nel mondo della produzione. Cercheremo di conoscerne molti, prendendo per ognuno il contributo personale alla costruzione dell’idea in modo da rendere per un attimo tangibile il sogno smarrito e divorato dagli eventi di un Anno 0 non consumistico bensì mistico, perché la cultura mitteleuropea ha un rapporto quasi di trascendenza con la materia, la cui padronanza eleva lo spirito e lo apre alla serenità della contemplazione. L’Arte Cinetica non dà giudizi ma evidenzia quanto realtà e osservazione mutino e siano fra loro interdipendenti, quanto l’opera d’arte trovi la sua ragion d’essere nella relazione con l’essere umano, con le sue peculiari caratteristiche percettive. È il riflesso della mente, non un simbolo imposto, non il diario di un individuo, non frutto del caso ma del metodo, della maestria, dell’umanità senza distinzioni di lingua o nazione, di razza o di ceto.

Al Kunstgewerbemuseum di Zurigo partecipò Enzo Mari, designer piemontese, che l’attuale pandemia di Covid ci ha da poco strappato. Un suo pensiero espresso nel 1999 molti anni dopo l’Arte Cinetica di cui fu tra i maggiori esponenti, spiega chiaramente i limiti andando oltre i quali quell’idea sarebbe implosa; occorre ritrovare la “tensione utopizzante delle origini del design” perché “l’etica è l’obiettivo di ogni progetto.” Mantenere sempre una relazione fra oggetto e fruitore, considerare i due come parti di una relazione attiva; i suoi studi sulla psicologia della percezione visuale vanno ben oltre la funzione del designer nel processo di produzione industriale: utilizzano materiali e forme del procedimento seriale e meccanico per esplorare un universo di sollecitazioni. Non è il mondo naturale a stimolare in massima misura la mente dell’uomo, perché la sua presenza nell’ambiente è casuale. Sono alcuni elementi che lo stimolano, quelli con cui si è evoluto, quelli della sua quotidianità. L’arte comincia a generarsi in relazione a chi la guarda: è quanto di più adatto si potesse immaginare per sollecitare l’osservatore. Enzo Mari, vincitore di diversi Compassi d’oro, coordinò il Gruppo Nuova Tendenza alla Biennale di Zagabria del 1963, e rimarcò in più occasioni la condanna per lo scadimento del designer da filosofo creativo a mero interprete di tendenze: è l’arte a guidare non la moda. Questo dà la misura di quanto alta dovrebbe essere la sua funzione: la Struttura 860 in alluminio anodizzato è un esempio canonico di questa nuova, umana bellezza.

La ricerca del friulano Getulio Alviani, scomparso nel 2018, ha anticipato lo sguardo contemporaneo, un paesaggio su cui ora passiamo purtroppo indifferenti ma che rappresenta una percezione ormai consueta, una parte nuova dell’ambiente urbano fatto di cantieri, di laminati, di superfici in acciaio riflettenti e senza limiti. Le Superfici a testura vibratile eseguite inizialmente con una fresa a mano libera, raggiungono poi un preciso ordine geometrico, frutto di una rigorosa programmazione. Il metallo assorbe e rimanda la luce, l’angolo visuale dell’osservatore, la fonte luminosa, creano infinite nuove combinazioni. L’Arte Cinetica è prima di tutto metodo, logica, ragionamento per dare voce alla propria sensibilità. Alviani espose nello spazio della Galerija Suvremene Umjetnosti di Zagabria: era il crogiolo in cui l’Arte Cinetica brillò per un decennio. Quale contributo cogliere dalla sua opera, oltre lo sguardo anticipatore dell’ambiente urbano contemporaneo? L’accorto dosaggio delle proporzioni, ad esempio: nella fissità del quadrato si sprigiona una grande forza attrattiva fatta di luce e movimento.

Il movimento di Alviani, però, dipende da una combinazione di fattori come nell’opera in alluminio Superficie a testura vibratile del 1972: il mutare del punto di osservazione e l’incidenza della luce modificano la percezione. La superficie stessa è pensata per una fruizione dinamica, l’opera d’arte si sviluppa nella mente di chi la guarda. Per questo, anche a rischio di sembrare fuori tema, ritengo interessante soffermarsi sulla copertina della rivista Domus numero 361 realizzata da Bruno Munari che nella sua complessa attività di designer e di attento indagatore delle tecniche di comunicazione visiva ha contribuito a promuovere l’Arte Cinetica. Lo fa anche coinvolgendone gli esponenti per la serie di mostre nei negozi Olivetti a partire, nel 1962, da quello di Milano per approdare poi in tappe successive tra Istituzioni e Gallerie d’Europa e degli Stati Uniti. L’Arte programmata era un suo conio, si concentrava sul mutare nel tempo dei pattern visivi, tra variazioni, ripetizioni e ricombinazioni casuali sempre però rigidamente inquadrate in un precedente programma di calcolo. Munari, milanese cresciuto nella macchina della propaganda, sugli echi del Futurismo e nell’esplodere della comunicazione di massa, aveva un particolare interesse verso la dinamica della comunicazione, la tecnica, il linguaggio più del contenuto. Per questo la sua attività è così poliedrica, affascinata dalle nuove intuizioni. Nonostante molte opere siano definite di Arte concreta, per la loro completa indipendenza dalla rappresentazione, la Cover Domus 361 esalta uno degli aspetti fondamentali dell’Arte cinetica: la percezione mentale del movimento, il dialogo diretto tra l’opera e i meccanismi della visione. Un’opera che già anticipa l’Optical Art e contiene il germe del declino della ricerca cinetica: una sollecitazione visiva priva di tensione morale. Il suo principale contributo all’arte cinetica, più delle oscillanti macchine inutili, è stato il coinvolgimento e la promozione di questi pensatori solitari, desiderosi di un agire collettivo ma irrimediabilmente chiusi nelle proprie ricerche individuali. Munari nel 1962 li invitò attraverso i loro Gruppi T ed N, che ora andremo a conoscere.

Nel frattempo il Designer aveva coniato il termine arte programmata, intendendo un’opera realizzata in base a un programma di calcolo che consenta la variazione formale e cromatica delle sequenze figurali, secondo un certo ordine temporale, tra ripetizione, variazione, accadimenti casuali e combinazione dei pattern visivi. È una definizione che guarda più alla tecnica che allo spirito di questi artisti, o meglio scienziati e artigiani dell’arte. Munari non dà particolare peso alla tensione etica del loro creare, ma è questa la molla che fa scattare l’intera ricerca. È su questo che noi ci concentreremo per capire cosa l’Arte Cinetica avrebbe voluto essere. Nel testo programmatico del Gruppo N, che sarà invitato da Munari alla mostra “Arte programmata, arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta” presso la sede milanese di Olivetti, leggiamo: “La dicitura enne distingue un gruppo di ‘disegnatori sperimentali’ uniti dall’esigenza di ricercare collettivamente. Il gruppo è certo che il razionalismo ed il tachismo sono finiti, che l’informale ed ogni espressionismo sono inutili soggettivismi.” Per coerenza non dobbiamo dare troppo risalto ai singoli artisti, privilegiando l’ideale espresso dal collettivo; cominciamo così a capirne il significato più profondo.

Per il Gruppo N (Enne da Ennea, nove in greco, tanti erano i fondatori) l’arte non deve essere espressione individuale ma, per generarla all’interno di un gruppo, deve avere una propria coerenza e un linguaggio progettuale. Tutto quanto è soggettivo diventa inutile, perché non trasmissibile; l’artista non riveste un particolare ruolo culturale e sociale, è semplicemente un operatore visivo: lavora e produce con pari dignità, assieme agli intellettuali e alle maestranze; è un operaio della conoscenza. Il Gruppo N riconosceva al fruitore dell’opera il ruolo di Soggetto attivo, per questo i suoi movimenti ancorché minimi permettevano la comprensione di alcune tra le infinite sfaccettature dell’opera che non esprimeva giudizi, non rappresentava né il vissuto né l’ideale aprendo direttamente un dialogo serrato tra uomo e opera, perché nata e voluta per interfacciarsi direttamente con la nostra mente, molto più della natura, molto più di ogni simbologia. Non stupisce che il Gruppo N, espressione della cultura universitaria di Padova, trovi la prima sede assieme ai militanti di Democrazia Proletaria. In pochi anni passa dall’esposizione “Arte programmata” organizzata da Munari nel 1962 alla consacrazione nel 1965 con The Responsive Eye al MoMA di New York, sempre più radicalizzando il lavoro di gruppo contro ogni principio di autorialità. Vediamone alcuni esempi:

Alberto Biasi, padovano del 1937, è tra i fondatori del gruppo portando la propria esperienza di insegnante di grafica pubblicitaria e la formazione in Architettura a Venezia e nel Corso Superiore di Disegno industriale. Dalla grafica prende la capacità di attrarre, dall’architettura l’attenzione alle tre dimensioni, dall’industria i materiali; si accorge che la parziale sovrapposizione, la proiezione di strutture, l’incontro ortogonale fra piani differenti per materia e colore, hanno la capacità di creare situazioni logiche, prevedibili ma non alienanti. Anche dopo la dissoluzione del gruppo N mantiene con coerenza la propria ricerca, caricandola di un personale lirismo come in Spots, opera del 1997.

Accanto a Alberto Biasi il pressoché coetaneo e concittadino Toni Costa (1935-2013) che parte a sua volta dal prodotto industriale come materia astratta, illimitata e aniconica per costruirvi spazi tridimensionali in grado di stimolare percezioni sempre diverse per l’osservatore che cambi il proprio punto di vista. Nascono così, dal ripetersi geometrico della struttura, linee di ombra e tagli di luce che si spostano continuamente in un gioco di relazioni spaziali, tra chi guarda e la superficie lamellare dell’opera. 

Mentre Biasi analizza l’espandersi della percezione dello spazio e Costa il loro mutare sulle superfici, Manfredo Massironi (1937-2011) a sua volta padovano e architetto, analizza la creazione nelle tre dimensioni sviluppandone le forme su basi progettuali e assonometriche, slegate dall’effetto della gravità, quindi apparentemente eteree, leggere, quasi impalpabili. Cattedratico ordinario di psicologia generale tra Padova, Verona e Roma continua a studiare l’estetica delle piegature, l’anatomia comparata dei nodi sempre attento allo stimolo percettivo che l’osservatore riceve lasciandosi catturare dalla logica senza peso delle sue creazioni.

Il Gruppo N rappresenta, a mio parere, quanto di più puro l’Arte Cinetica abbia saputo elaborare perché nel collettivo di Padova si va oltre la ricerca raggiungendo una nuova estetica di cui evidenzio alcuni caratteri: si prende coscienza della dinamica relazionale fra oggetto e osservatore ed è l’atto che diventa effettiva opera d’arte, è quindi un’estetica improntata alla percezione, all’esperienza. Avvicinarsi all’arte diventa un percorso di crescita individuale; in questo crescere si abbandona completamente il simbolo, la rappresentazione ed è quindi assolutamente democratica e sovranazionale. Il Gruppo N scardina l’idea del dato immutabile, accetta completamente il mondo industriale ma non se ne fa travolgere, lo domina e lo usa, limitandolo a uno spazio proporzionato deciso dall’artista. È un’arte che si basa sulla scienza, sull’industria e sul metodo, ma riesce a mantenere la modernità nei limiti del rispetto dell’uomo: l’esatto contrario della Grande Guerra di nemmeno mezzo secolo prima, in cui milioni di individui furono travolti e massacrati da un’industrializzazione bellica assolutamente fuori controllo. Inoltre suggerisce qualcosa di estremamente attuale: non è la natura selvaggia il nostro spazio mentale di riferimento, ci appartiene sì ma non ci rappresenta. È una grande intuizione che spinge all’equilibrio nella consapevolezza della diversità: una lezione che non abbiamo saputo cogliere.

Attorno a questo nucleo di pensatori, il fermento culturale dell’Arte Cinetica è stato declinato con infinite variazioni ma, sostanzialmente, abbiamo tre linee di ricerca. Volgersi al colore e alle dinamiche dei contrasti simultanei, cioè al fenomeno percettivo che si sviluppa davanti a giustapposizioni di tinte diverse; utilizzare schemi cinetici con finalità espressive; muovere la materia o la luce mantenendo fisso il punto di vista di chi guarda. Come già si intuisce sono strade che abbandonano la complessa ricerca di costrutti in grado di essere percepiti in modi differenti nella relazione dinamica tra oggetto e osservatore.

Mario Ballocco, milanese, artista astrattista della precedente generazione (1913-2008) non crea della vera e propria Arte Cinetica ma percepisce il dinamismo dei contrasti cromatici e li indaga con passione scientifica, studiandone l’impatto sull’ambiente umano e gli effetti, sviluppando la Cromatologia quale corso di studi all’Accademia di Brera. Sono ricerche basilari per lo sviluppo dell’Arte Cinetica perché evidenziano quanto il movimento dei contrasti simultanei non sia necessariamente fisico, bensì percettivo.

Marina Apollonio (Trieste 1940) è figlia del critico Umbro e prende dall’Arte Cinetica il linguaggio più dei contenuti. Ne condivide l’uso di lavorati industriali e il desiderio di un’arte depersonalizzata; lavora come progettista nello studio di architettura Édouard Albert, a Parigi, creando strutture per trasformare la percezione visiva dello spazio, che assume così un aspetto dinamico e fluttuante. Vicina a Getulio Alviani, si interessa sia alle ricerche del Gruppo N che del Gruppo T, un collettivo milanese che ci apprestiamo a conoscere.

Anche il Gruppo T è invitato nel 1962 da Bruno Munari alla mostra “Arte programmata, arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta”; si era costituito da pochi anni e ha un’impronta decisamente più personale del coevo Gruppo N oltre ad una storia decisamente più lunga: in pochi anni organizza ben 14 collettive, le Miriorama (infinite visioni). T sta per Tempo, in una dichiarazione programmatica il collettivo annuncia: “Consideriamo la realtà come continuo divenire di ‘fenomeni’ che noi percepiamo nella ‘variazione’. Da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto, nella coscienza dell’uomo (o solamente nella sua intuizione) di una realtà fissa e immutabile, noi ravvisiamo nelle arti una tendenza ad esprimere la realtà nei suoi termini di divenire”. Per questo ognuno degli artisti coinvolti pone l’accento su elementi specifici: polveri, luci, trasparenze e fluidi che vengono mossi meccanicamente rispondendo ognuno alla propria natura fisica.

Giovanni Anceschi (Milano 1939) nella “Tavola di possibilità liquida” sfrutta la forza di gravità e l’olio lubrificante colorato; Davide Boriani (Milano 1936) realizza “Superfici magnetiche” verticali dove la polvere di ferro scivola fra separatori curvilinei e viene catturata su percorsi di campi magnetici generati elettricamente da micromotori. Gianni Colombo (Milano 1937) unisce il ritmo della sua passione musicale, sia la madre che lui erano bravi pianisti, ai conduttori elettrici dell’azienda di famiglia ottenendo “Quadrati pulsanti” in plexiglass i cui lampi improvvisi sembrano alterarne la geometria. Gabriele Devecchi (Milano 1938–2011) incerniera alla parete dei tubi luminosi che motori elettrici fanno ruotare su percorsi fissi, alterando così l’ordinaria percezione dello spazio. Al collettivo originario si affiancherà Grazia Varisco (Milano 1937) con gli “Schemi luminosi variabili”, oggetti cinetici simili a caleidoscopi. Sono tutte opere capaci di affascinare ma spingono l’osservatore verso una posizione passiva e diventano così più oggetto d’arte che stimolo multisensoriale ad un approccio creativo.

L’Arte Cinetica in Italia, oltre ai Gruppi e all’idea di sviluppare la creatività in forma collettiva, ha avuto anche protagonisti di assoluto rilievo con percorsi più individuali; fra i Cinetici indipendenti quello dalla ricerca più pura e coerente è il veneziano, di sangue piemontese, Ferruccio Gard. Il suo percorso è originale perché guarda anche alla componente emotiva dell’Arte Cinetica: parte dalla medesima tecnica di contrasti simultanei, i colori sono brillanti, l’opera ha due dimensioni fisiche e la percezione di uno spazio vibrante e dinamico. Gard però suggerisce anche la quarta dimensione, quella della memoria e dell’esperienza: introduce nella stessa composizione tempi di lettura diversi e l’osservatore è costretto a cercarvi una ragione. Può essere la percezione di un contrasto paesaggistico, tra il vibrante delle acque lagunari e la concretezza degli edifici storici o quello tra l’individuo e il proprio vissuto, come nell’opera “Self portrait Autoritratto”.

Quasi tutti questi artisti citati hanno radici storiche nel Lombardo-Veneto e il loro approccio tra geometrie rigorose, materiali dell’industria, capacità di metodo, sovvertimento della tradizione e scomposizione visiva sembrano avere un’unica remota fonte: i preziosi interni della Loos Haus a Vienna, 1910, su progetto del quarantenne architetto calvinista Alfred Loos. Può essere una semplice suggestione ma la sua idea di cancellare ogni ornamento di stile per staccarsi dal passato ricorda le istanze morali del Gruppo N e la purezza della loro ricerca. Più l’Arte Cinetica si svuota di significato pubblico morale più la sua forma diventa griglia per svelare un mondo interiore, evocare frammenti di paesaggio, ambienti e nostalgiche rimembranze. Lo vediamo chiaramente mezzo secolo dopo, dall’altra parte d’Italia. Due artisti siciliani, Giacomo Failla e Enzo Tardia, catanese il primo e trapanese il secondo, applicano gli schemi dell’Arte Cinetica per dare forza attrattiva alle proprie composizioni. Dall’arte di Failla prorompe il colore solare e vibrante del mare di Sicilia, dei giardini arrampicati sulle rocce di basalto; dalle opere di Tardia le maioliche delle cupole barocche, gli orizzonti piatti e luminosi del Tirreno meridionale. La terza dimensione scompare, l’industria dei metalli e delle plastiche diventa colore acrilico, la spinta verso il futuro torna ad essere pittura, ma una cosa è certa: gli schemi e alcune idee germinali dell’Arte Cinetica non sono scomparsi, anzi, manifestano ancora oggi un’indubbia vitalità.

15 Febbraio 2022

Massimiliano Reggiani

Massimiliano Reggiani, emiliano ma da anni in Sicilia, si è laureato in Giurisprudenza e in Filosofia a Parma, in Scenografia all’Accademia di Bologna. Considera la comunicazione visiva connaturata alla specie umana e cerca nell'arte il riflesso del continuo mutare di valori e culture. Scrive di linguaggi contemporanei sulla propria pagina Facebook Critica d’arte.

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