Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

Oro. il più prezioso dei metalli tra estasi e dannazione

Oggetto del desiderio e causa di disperazione, l’oro. Ma, per gli artisti, soprattutto un colore
[wp_ulike]

Metallo prezioso e lucente, l’oro ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del genere umano. La stessa scoperta dell’America ha a che fare con l’oro. Cristoforo Colombo era spinto alla navigazione dalla ricerca del prezioso metallo: “L’oro (o meglio, la sua ricerca, perché non ne fu trovato molto agli inizi) è onnipresente nel corso del primo viaggio. Già all’indomani della scoperta, il 13 ottobre 1492, egli annota nel suo diario: ‘facevo attenzione e cercavo di comprendere se avessero dell’oro.’ E vi ritorna di continuo: ‘Non voglio perdere tempo ma cercare l’oro e raggiungere molte isole’ (15 ottobre 1492)” (Tzevan Todorov, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Giulio Einaudi editore, Torino, 1992). Sempre l’America a fine Ottocento vide grandi flussi migratori dovuti alla cosiddetta “corsa all’oro” causata dalla scoperta di grandi quantità d’oro nei fiumi Yucon e Klondike. Questo fenomeno portò allo spostamento di un imponente numero di lavoratori verso le zone con potenziali giacimenti auriferi. Nel Medioevo prese piede la disciplina dell’alchimia che si proponeva, attraverso l’impiego di studi esoterici e filosofici, di riuscire a tramutare i metalli vili in oro. Proprio la storia dell’arte ci mostra gli effetti di questa smania di trasformare tutto in oro. Il grande pittore del Cinquecento Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, avrebbe danneggiato la propria brillante carriera a causa della sua ossessione per l’alchimia. Una fissazione che prende sempre maggiore spazio nelle giornate dell’artista di Parma: “Ma quando avviene la conversione di Parmigianino da ‘gentile e grazioso’ ragazzo di provincia in filosofo pittore? Quando comincia a ‘perdersi nella pratica dell’alchimia’ che arriverà a trasformarlo, da quel  giovane bellissimo che intratteneva i molti amici suonando il liuto, in un uomo ‘mal condotto…malinconico e strano’, con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo selvatico’ come lo descrive Giorgio Vasari nel 1568?” (I classici dell’arte, Parmigianino, Rizzoli libri illustrati società editoria artistica spa- Gruppo Skira, 2004). Quando l’oro genera cupidigia e avidità il danno è certo, come dimostra la mitologia. Il desiderio smodato di ricchezze ha conseguenze indesiderate per Mida, re di Frigia. Quando Dioniso, per ricompensarlo per l’ospitalità offerta al suo pedagogo Sileno, si dice disposto a soddisfare ogni suo desiderio, l’uomo  gli chiede il “tocco d’oro” ovvero la capacità di trasformare in oro tutto ciò che tocca. Sfortunatamente anche il cibo e l’acqua si trasformano al suo tocco. Così, per non morire di fame e di sete, Mida fa il bagno nel fiume Pattolo e perde il suo singolare potere.

Da sempre presente nell’arte, l’oro (nelle pale d’altare con fondo oro o nelle statue di bronzo dorato)  anche nel Novecento e negli anni Duemila sembra aver mantenuto un fascino irresistibile per gli artisti. Chi ha dato centralità assoluta all’oro nella propria opera è certamente Gustav Klimt. Esponente di punta della Secessione viennese, l’artista di Baumgarten mostra una ridondanza ornamentale assolutamente inedita ai suoi tempi. L’enfasi decorativa che caratterizza la sua pittura non può prescindere dal colore oro. Nei suoi lavori le parti realistiche si inseriscono in  quelle ornamentali per contrasto e trovano nell’impiego dell’oro un elemento catalizzatore dello sguardo. In Giuditta (Salomé) (1901) della viennese galleria Welz il potere di seduzione del volto e del corpo nudo della donna viene amplificato dagli arabeschi dorati che la avvolgono. Ne Il bacio (1908) della Osterreichisce Galerie Belvedere di Vienna i due amanti sono avvolti da una raffinata coperta dorata con disegni astratti. Sono lavori nei quali la struttura decorativa entra aggressivamente nella composizione creando un contrasto tra naturalismo e ornamentazione, mostrando un desiderio di astrattismo che è la componente fondamentale dell’arte di inizio Novecento. La realtà non viene riprodotta con esattezza rappresentativa ma semplicemente allusa in un lavoro nel quale essa si fonde con il simbolo. Klimt, in fondo, rappresenta nella sua pittura una società avviata a una lenta e dolorosa decadenza, sente il decomporsi del vecchio impero austrungarico e lo accompagna con dolce nostalgia al suo ineluttabile tramonto.

La luminosità dell’oro è l’approdo della ricerca artistica di Alberto Burri. Il viaggio nella materia del pittore di Città di Castello parte da composizioni con catrame e pietra pomice (Catrame del 1949), passa per la presenza ruvida dei sacchi di juta, attraversa, con il drammatico intervento della fiamma ossidrica, la plastica arsa delle combustioni e delle plastiche, percorre le fenditure che segnano lo sfaldarsi dei cretti (il craquelure) e arriva all’essenzialità del cartone pressato dei cellotex. Proprio nei cellotex Burri gioca il contrasto tra la lucentezza degli inserti in oro e l’oscurità delle zone nere nella serie Nero e oro del 1993. Con l’acrilico e le foglie d’oro su cellotex l’artista umbro raggiunge livelli di elevatissima preziosità e raffinatezza. Le zone nere variano per tonalità e si inseriscono in quelle auree configurando un incastro di forme geometriche pure e assolute. Nel 1994 le decorazioni dorate vengono applicate ai cretti come in Cretto e oro (1994) in cui la craquelure del cretto bianco viene impreziosita dall’inserto di una foglia d’oro all’estremità destra del dipinto.

Nel campo della scultura informale italiana è Arnaldo Pomodoro a esaltare le superfici dorate. Nelle sue sfere il bronzo dorato patinato e lucido della superficie esterna viene contraddetto dal caotico groviglio di dentellature che si mostrano attraverso gli squarci nel guscio esterno della sfera. L’oro sottolinea il contrasto tra la perfezione e la levigatezza esteriore e lo scomposto e confuso germogliare interno di forme. L’apparente perfezione nasconde il profondo travaglio interiore. Da artista sensibile, Pomodoro intuisce che l’epoca moderna è dominata da un dualismo che tormenta l’uomo consapevole delle proprie manchevolezze che lo allontanano dal suo ideale di perfezione. L’erosione alla quale è sottoposta la parte interna della scultura ci ricorda come l’uomo finisca con il rovinare tutto quello che tocca. Una ferita profonda nella coscienza umana che non si può curare ma mostrare in un’opera di rivelazione delle verità inaccettabili e rimosse. Il fratello di Arnaldo, Giò Pomodoro opta anche lui per la doratura in lavori quali La folla (1967) del milanese Studio Marconi e Grande Gibellina 2 (1965-99) della collezione dell’artista. La luminosità dell’oro amplifica la vibrante mobilità di queste sculture percorse da drappeggi formati da infossature e sporgenze che agitano la materia. La ricerca plastica di Giò Pomodoro si svolge nella scultura monumentale con ondulazioni e increspature che concretizzano il campo energetico generato da forze contrapposte. Questo scontro di potenze contrastanti visualizza la tensione ideologica e morale che contrassegna l’opera dell’artista di Orciano di Pesaro.

Josef Albers in Studio per omaggio al quadrato. Partendo in giallo (1964) della londinese Tate Gallery fonda il proprio lavoro sulla geometria e sul colore. Il pittore tedesco aderisce al movimento dell’optical art (op arte) che si prefigge di realizzare opere d’arte fondate su ricerche scientifiche sull’ottica e sulla percezione visiva del riguardante. L’opera in questione è formata da una serie di quadrati dipinti inseriti l’uno nell’altro che vanno dal giallo arancione del quadrato esterno (il più grande) al giallo oro del quadrato più interno (il più piccolo). “Il quadrato ha fornito a Josef Albers la costante forma geometrica impiegata come un’astratta unità di misura (o un’idea platonica). Ma poi interviene il colore a precisarlo” (Alberto Boatto, Di tutti i colori, Gius. Laterza & figli, Roma-Bari, 2008). Se il giallo dei quadrati esterni mostra stabilità, l’oro del riquadro interiore dona, nel suo splendore irraggiante, una qualità cangiante e mobile che dinamizza il dipinto.

Per la sua opera Grande quadro d’oro (1964) della collezione Giorgio Marconi di Milano, Lucio Del Pezzo opta per l’acrilico e la foglia d’oro. In questo lavoro la mensola, i birilli, i timbri  divengono segni, lettere di un alfabeto simbolico che rinvia a concetti ideali ed elevati. Tutto qui è dorato, gli elementi in primo piano come lo sfondo. Lo splendore del prezioso metallo riscatta gli oggetti dalla loro banalità, donando valore estetico  a ciò che per la sua stessa natura non può averne. Rappresentante di punta del movimento napoletano Gruppo 58, Del Pezzo propone strutture a muro, con supporto ligneo dipinto e componenti geometriche in un insieme straniante di marca metafisica.

15 Luglio 2022

Fabio Massimo Penna

Laureato in Lettere, è giornalista pubblicista ed editor. Ha scritto su varie testate sia cartacee che online, occupandosi prevalentemente di arte, cinema e letteratura. Il suo interesse è rivolto in particolar modo alle contaminazioni e interconnessioni tra le varie forme espressive e creative.

Disclaimer Fotografie

Le fotografie presenti in questo articolo sono di pubblico dominio oppure state fornite dall’autore dell’articolo che ne assume la piena responsabilità per quanto concerne i diritti di riproduzione. Questo disclaimer è da considerarsi piena manleva nei confronti dell’editore. Se il tenutario dei diritti volesse richiederne l’eliminazione o l’apposizione di particolari crediti è pregato di scrivere a redazione@e-zine.it