Gerda Taro, il cui vero nome è Gerta Pohorylle, ebrea tedesca nata il 1 Agosto 1910 a Stoccarda, morì a 26 anni per un tragico incidente durante la Guerra di Spagna nella ritirata della battaglia di Brunete, il 26 luglio del 1937. Un carro armato dei repubblicani fece una manovra sconsiderata e la schiacciò.
Per le persecuzioni naziste antisemite, nel 1933 la sua famiglia lasciò la Germania per la Palestina, ma lei preferì Parigi. Aveva solo 23 anni e non rivide più i suoi cari. Quando incontrò Endre Friedmann, che convinse a cambiare nome in favore di uno pseudonimo americano, Robert Capa, cambiò nome anche lei e nacque un sodalizio sentimentale ma anche professionale e cominciarono a lavorare insieme. All’inizio le loro foto vennero messe tutte insieme e pare che alcune delle foto attribuite a Robert Capa siano in realtà scatti di Gerda. Fino a un certo punto lei lavorò col formato 6×6, facilmente distinguibile dal 24×36 di Capa, ma poi, come si vede bene in alcune istantanee dove compare Gerda al lavoro, si convertì anche lei al 24×36 e da lì un mare magnum di materiale nel quale è complicato risalire alla paternità di tutte le immagini, anche se lo stile dei due è molto diverso. Ma lui divenne un mito oltre ogni frontiera, il più leggendario dei fotoreporter di sempre. E quando il 25 maggio del 1954, a Thai Bin, in Indocina, Robert Capa saltò su una mina antiuomo, John Mecklin, un corrispondente di Time-Life che lo aveva accompagnato, fu il primo a soccorrerlo. Inizialmente non riusciva a credere a quel soldato che senza alcuna emozione continuava a ripetere “Il fotografo è morto”. Lo trovò con una gamba dilaniata e un’ultima smorfia di dolore.
Fu un momento durissimo per tutto il mondo dell’informazione. John Steinbeck scrisse: “Io ho molto viaggiato con Capa. Egli può forse aver avuto degli amici più intimi, ma certo non ne ha avuto alcuno che l’amasse di più”. Hemingway, che a sua volta ne rimase affascinato sin dal primo incontro a Madrid, si ispirò alle sua storia per “Le nevi del Kilimangiaro” e “Per chi suona la campana”.
E così quel vivace bambino ungherese di origine ebrea, nato a Budapest il 22 ottobre del 1913, sarebbe diventato il reporter più famoso, co-fondatore e presidente dell’agenzia fotografica più importante (la Magnum), e durante la guerra di Spagna, autore dello scatto più pubblicato di sempre, “Morte di un soldato lealista”, anche se controverso perché costruito.
A 18 anni andò a Berlino, squattrinato ma pieno di buone intenzioni, e accettò di lavorare in camera oscura per l’agenzia Depot. Capitò che il reporter, che doveva documentare l’arrivo di Lev Trotzky a Copenhagen, si ammalasse e non c’era nessun altro a sostituirlo. Andò lui, e abilmente riuscì a intrufolarsi tra le guardie e fu l’unico a documentare il politico russo esiliato da Stalin che teneva il comizio. Foto non belle ma uniche e pubblicate in tutto il mondo. Comprese cosa voleva fare nella vita e di li a poco, in fuga dal nazismo, arrivò a Parigi, la sua città preferita. Fu lì che conobbe Gerda e gli affari cominciarono magicamente a marciare.
Ormai famoso fotografo di guerra, ma afflitto dal dolore per la perdita della sua compagna, dopo la Spagna Capa documentò il conflitto cino-giapponese, l’avanzata degli alleati dalla Sicilia fino all’ultimo scontro nel 1945 a Lipsia. E realizzò un progetto a lui caro da tempo: fondare insieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour e George Rodger la mitica agenzia Magnum, ancora oggi la più prestigiosa. E ripartì. Russia nel 1947, fondazione di Israele nel ‘48, un film di John Huston e poi la sua ultima, tragica, missione in Indocina. Ma di tutto il suo lavoro, spicca lo sbarco in Normandia, le cui foto vennero distrutte per errore in camera oscura, anche se ultimamente sono sorti dei dubbi sulla questione. Se ne salvarono soltanto 11. Aveva rischiato la vita come un qualsiasi soldato sulla spiaggia di Omaha Beach, tra i proiettili delle mitragliatrici tedesche che decimavano le truppe da sbarco. 11 fotogrammi considerati, comunque sia andata, i migliori di quell’incredibile, lunghissimo D-Day.
Georgette Louise Meyer, meglio conosciuta come Dickey Chapelle, nacque a Milwaukee, nel Wisconsin, il 14 marzo del 1918 e fu la prima fotoreporter americana morta in guerra. Sposò nel 1940 il suo insegnante di fotografia Tony Chapelle, e dopo aver lavorato per la aerolinea TWA e il magazine “Look”, divenne corrispondente per National Geographic e documentò le battaglie di Iwo Jima e Okinawa. Continuò a viaggiare e a documentare le guerre di mezzo mondo e si trovò in Ungheria durante le rivolte del 1956, dove fu arrestata e incarcerata per più di 7 settimane. Entrò sempre più in sintonia con le truppe, marciava spesso con loro e imparò a saltare con i paracadutisti. Questo le fece guadagnare numerosi premi e la stima sia dei giornalisti sia dei militari. Estimatrice del Fidel Castro della prima ora, cambiò rapidamente idea e divenne anticomunista, il che la fece partecipare alla campagna del Vietnam con grande motivazione. Fu lì che perse la vita il 4 dicembre del 1965, 16 km a sud di Chu Lai, nella provincia di Quang Ngai colpita alla gola da una scheggia di shrapnel.
Il 10 febbraio del 1971, un elicottero UH-1 della RVNAF (Republic of Vietnam Air Force) venne abbattuto da un cannone antiaereo nordvietnamita da 37 mm nel Laos. In 11 persero la vita, tra questi quattro fotoreporter di paesi diversi e di testate diverse, i cui racconti per immagini di urla e di esplosioni grottescamente silenti nella stampa dello scatto fotografico, di cadaveri e aerei abbattuti sparsi nel fango, si conclusero in un unico assordante schianto, il più assordante della storia della fotografia d’informazione. Henry Huet aveva studiato nella scuola d’arte a Rennes in Francia e aveva cominciato la sua carriera come pittore. Nato a Da Lat, in Indocina, di padre bretone e madre vietnamita il 4 aprile del 1927, dopo il servizio militare nella Marina francese, durante il quale era stato istruito per la documentazione fotografica, continuò a collaborare con le forze armate americane in Vietnam. Ed ebbe come maestro Charles Thomas, un fotoreporter della Seconda guerra mondiale che lo influenzò e lo stimò molto. Henry entrò a far parte della Associated Press, riuscì a guadagnarsi la Robert Capa gold medal (il riconoscimento più importante per una carriera del genere) e a pubblicare importanti servizi su “Life”. Larry Burrows nacque il 29 maggio del 1926 a Londra. Iniziò la sua carriera nella camera oscura dell’agenzia Keystone e in quella di “Life”. Lavorò come fotoreporter a Suez, in Libano, a Cipro e in Africa centrale, per poi dedicarsi per 9 anni al Vietnam. La sua foto più famosa “Reaching out”, in cui un medico ferito continua ad aiutare i soldati, fu celebrata da Ben Cosgrove di ”Life” come “L’illustrazione più indelebile e bruciante degli orrori della guerra”. Kent Potter della United Press International (Upi), divenne un fotoreporter di guerra a dispetto della sua famiglia di Quaccheri (convintamente pacifisti, com’è ovvio) di Filadelfia in Pennsylvania, dove nacque nel 1948. Secondo i suoi amici più stretti, aveva sempre desiderato di andare in Vietnam. Dove all’inizio del 1968, quand’era appena ventenne, la Upi gli offrì un incarico per sostituire un altro fotoreporter che aveva perso la vita. Alto, bello e dinoccolato, attaccabrighe, sembrava un attore di Hollywood. Keisaburo Shimamoto, nato in Corea nel 1937 ma cresciuto a Tokio, laureato in letteratura russa nella prestigiosa università giapponese di Waseda, era lanciato verso una carriera universitaria. Ma suo fratello maggiore, Kenro, lo introdusse alla carriera di fotoreporter dove fece molta strada: in breve arrivò a lavorare per “Newsweek”. I quattro fotoreporter che persero la vita in quell’infausto giorno del 1971 sono sepolti nel Newseum di Washington.
Gilles Caron scomparve in Cambogia, nella zona della Route 1, controllata dai Khmer rossi, il 5 aprile 1970, a 31 anni. Aveva studiato giornalismo nella scuola di Alti Studi Internazionali a Parigi. Era andato in guerra in Algeria nel 1959, ma finì in prigione per essersi rifiutato di combattere dopo il golpe del 1961 di quattro generali francesi. Dopo essere tornato a Parigi sposò Marianne, dalla quale ebbe due figlie. Nel 1964 lavorò per l’APIS (Agence Parisienne d’Informations Sociales) dove conobbe il grande fotografo Raymond Depardon , che seguì nel 1967 nell’agenzia Gamma. Per tre anni si occupò di conflitti. La Guerra dei 6 giorni in Israele, il Vietnam, il Biafra, gli scontri del maggio 1968 a Parigi, in Messico nel settembre 1968, quando la polizia sparò sugli studenti per le dimostrazioni nei giorni precedenti le Olimpiadi, la rivolta nelll’Irlanda del Nord, l’anniversario della Primavera di Praga nel 1969 e infine la Cambogia. Era nato in Francia, a Neuilly-sur-Seine l’8 luglio del 1939, da padre francese e madre scozzese, circa un anno prima che i nazisti occupassero la Francia.
Saltando migliaia di fotoreporter che hanno perso la vita negli ultimi decenni, l’ultimo, di pochi giorni fa, Maksim Levin, ucraino, di 40 anni, sposato e padre di 4 figli, collaboratore di Associated Press e di Reuters, che stava documentando a Guta Mezhyhirsk, nel distretto di Vyshhorrod, i bombardamenti russi, è stato ritrovato a nord di Kiev il 1 aprile ucciso da due colpi di pistola. Pochi anni prima, nel 2014, sempre in Ucraina durante la guerra del Donbass, il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli perse la vita per una serie di colpi di mortaio ordinati dal comandante ucraino Mychalo Zabrods’kyi sparati contro un gruppo di civili di cui faceva parte. Rocchelli Aveva documentato la Primavera araba in Libia e in Tunisia, il Kyrgyzstan e l’Ingushetia e la criminalità organizzata in Italia. È stato assistente di Alex Majoli e ha pubblicato su “Le Monde”, “The Wall Street Journal” e “Novaja Gazeta”.