D. Viviamo tempi davvero critici, da circa un mese la guerra in Ucraina e il dolore che ne consegue. Quali sono le tue riflessioni in merito?
R. Guardo queste immagini tremende e avverto con molta empatia il momento della loro fuga. Sono persone che stanno fuggendo e non gli è dato molto pensare agli eventi. Hanno forse avuto una culla di anni per riflettere, perché è un qualcosa che si stava muovendo all’interno da tanto tempo. Mi colpisce sempre il fatto che quando sei in fuga raccogli poche cose. Mi hanno raccontato che ogni persona ha tre buste a disposizione: una con le coperte per ripararsi durante le code in uscita, una con alimenti e necessario per la pulizia dei bambini e infine una con qualche giocattolo. Quest’ultima è molto importante, per fare in modo che al bambino non manchi mai quel senso di proprietà e di tenerezza che è nelle sue cose. Perché tra l’altro lasciano il papà. Seppur in un contesto di diversa natura, anche io ho vissuto questa sensazione. Quando impari, in qualche modo, ad attivarti alla sopravvivenza, la reazione a quell’istante di paura, scatta una reazione d’istinto. Non fuggi per mancanza di coraggio, ma perché in quel momento è proprio quella la cosa migliore da fare. In un momento di grande confusione diventa l’unica soluzione. Il dolore, anche quello della guerra, ti può salvare, ma è uno scarto che avviene in un secondo momento. Nella fase iniziale c’è solo il movimento, immediato e meccanico. E poi con il tempo subentrano altre cose, perché quando subisci delle paure molto forti, rimangono delle lesioni che spesso non sono rimarginabili, sono lì, aperte. Non hanno dentro una sorta di liquido in grado di fuoriuscire, sono li, purché non venga messo sopra qualcosa che le contenga. Le vedi e le trasformi in qualcos’altro. Quando hai paura, si genera un sentimento di rabbia, il sentimento più feroce e distruttivo per il corpo umano.
D. Come viene percepita la guerra da un pittore?
R. Io sono molto sensibile verso tutto ciò che possa significare guerra. La guerra è distruzione di una civiltà, di una certezza e di una familiarità di ciò che ti appartiene. Un conto è che tu possa scegliere dove potere andare, un altro conto è ricevere un’imposizione. È un andare passivo. Ricordo con molto dolore la guerra in Siria, dentro di me c’era mia figlia Giulietta, e Marco, il papà delle mie figlie, era ad Aleppo per un reportage fotografico e non c’era ancora la guerra. Ho pensato di fermare questo momento con un angelo con le ali aperte e intorno la distruzione. Ma il quadro, a leggerlo oggi, può chiamarsi Aleppo, ma anche Kiev, perché la forma della guerra è sempre unica, sbagliata, e senza differenze geografiche. Può avere il nome anche di tutte quelle guerre che non sono evidenti, ma che stagnano nel sottosuolo e non sono dichiarate. La guerra è sempre un’ingiustizia, perché è sempre creata a tavolino per questioni che vanno al di là dell’uomo comune. Non puoi scegliere, la guerra rappresenta un subire una deviazione della tua vita dettata dagli eventi. Mi raccontò di questa sabbia rosa, di piazze colme di ragazzi appena usciti dagli atenei universitari. C’era una grande energia, tanta arte, reperti archeologici incredibili. E poi il conflitto e un senso totale di distruzione. Marco al tempo intervistò molte donne siriane che vivevano nei campi profughi con i loro figli. Gli uomini erano rimasti nella loro Terra cercando di resistere alla loro situazione, cercando di comprendere se dover fuggire oltre i campi e magari arrivare in altri paesi. Erano donne senza uomini. Mi colpì la storia di una donna che rimase nel campo con i figli, mentre il compagno laureato e con una certa formazione intellettuale, dovette lasciarla per recarsi in Germania. Lei che aveva una vita piena e felice, in poco tempo si trovò in una condizione completamente diversa. Mi colpì la sua incredibile eleganza con l’unico vestito che aveva e il velo in testa, di una bellezza incredibile anche per la fierezza del suo sguardo. Ho realizzato molti quadri prima e dopo questa tragica pagina della storia. Ma non solo. Ne ho realizzati altri dopo lo Tsunami e in occasione di altri eventi drammatici. Di fronte ad eventi enormi che l’uomo non riesce a gestire, mi sento sensibile e il mio occhio, seppur lontano cerca di entrare e di comprendere.
D. Spesso, nelle tue composizioni, l’essere umano è rappresentato con un solo occhio, per quale motivo?
R. Noi abbiamo l’occhio della visione, che può fermarsi alla superficie e guardare una cosa così come è. Ma oltre questo, c’è una visione interiore che è assolutamente viva e sveglia, ti offre un collegamento alla sensazione percepita. E quello è il vero sguardo. Se penso alle immagini di questi giorni, alla distruzione delle città in Ucraina, al popolo che fugge, beh l’immagine immediata che posso percepire è quella di una figura con un occhio al suo posto e l’altro che cade e rimane appeso: in questi momenti di forte dolore avviene una scissione dentro di noi, che razionalmente non si può comprendere, fatti ed eventi che non è dato nemmeno poi così tanto sapere, se non potendole studiare.
D. Prima si parlava di rabbia. È un sentimento che pensi possa salvare?
R. No, è una salvezza apparente. Se quando la provi, riesci ad esplicarla, ma non in forma di violenza, è solo una difesa, una sorta di giustizia ben riposta. Ma se la mantieni dentro te stesso, la canalizzi e la fai covare, è assolutamente distruttiva perché non viene detta a nessun altro, se non a te. Parte tutto da qui. Non c’è nulla di più complesso dello spiegare come ci si sente in alcune circostanze. Quando racconti una storia, devi anche ben capire chi è il tuo interlocutore, perché in quel momento diventa una privazione di te che hai vissuto in maniera molto forte. Se l’altro non è in grado di immedesimarsi a livello empatico e comprendere, può svilire un momento che al contrario per te stesso ha cambiato la vita. Per me questo è un fatto molto importante in quanto riguarda immagini che vanno serbate bene. Per comunicarlo ci sono diversi modi.
D. E quale può essere il tuo?
R. In primo luogo il dipingere e il disegnare. Tradurre, se non in maniera esaustiva, qualcosa che si trova in profondità, che a volte può non trasmettere serenità. Ma è lì. Perché rappresenta ciò che siamo. La vita è un pieno e un vuoto.
D. C’è il pieno e il vuoto nei tuoi lavori?
R. C’è tanto pieno quando il racconto è lungo e per quanto mi riguarda, questo non può essere chiarito in un solo elemento. Più elementi ci sono e più gli eventi, in quel piccolo lasso di tempo, sono tanti e li racchiudo tutti. Questi elementi sono collegati tra loro e sono in relazione. Può avvenire attraverso una linea, oppure un simbolo, o un animale.
D. C’è una continuità grafica tra gli elementi, anche se poi sulla superficie pittorica intervieni sempre con un segno molto incisivo e deciso. Si può ritenere che questi elementi siano inglobati nella pittura, ma separati dall’istante del gesto?
R. Non proprio. Il disegno permette sicuramente un racconto asciutto, è invasivo, e raggiunge una sorta di bilanciamento nello spazio, nella linea e nella composizione del quadro. Il colore, quando è insieme al segno, può distogliere molto lo sguardo. Il segno, nei miei lavori, quando è fine a sé stesso, è quello e basta. Il colore, associato al segno, è un fatto emotivo, di violenza. Rompe totalmente gli argini della continuità proprio perché ha necessità di un flusso continuo, emozionale. Ha un diverso valore descrittivo.
D. Abbiamo ripetuto spesso la parola racconto, la tua è una pittura narrativa?
R. Certamente. Racconti, visioni, immagini reali, estrapolate e poi riequilibrate. Sono le mie immagini e altre non direttamente appartenenti al mio vissuto. Quando qualcosa mi colpisce, si crea sul piano empatico una forte connessione. Ma spesso fondo il mio vissuto correlato a una sorta di comprensione e compassione verso alcune circostanze. Come la guerra.
D. Nelle tue opere ci sono molti personaggi, riferimenti figurativi colti e letterari.
R. C’è sicuramente un recupero di tutto l’immaginario greco-romano, ma anche miti e leggende dell’Alto Medioevo e dei regni romano-germanici. Li filtro a credenze e religioni. Mi piace inserire satiri che importunano le ninfe, rappresentare il dio Pan e la sua grande carica sessuale. C’è un recupero di narrazioni e scontri tra barbari e romani, incontro e scontro di tradizioni pagane e cristiane; inserisco suggestioni relative all’eredità dei cristiani e la rielaborazione della conoscenza antica, fatti di mostri e creature fantastiche. Amo molto la mitologia. Ho realizzato un quadro dal titolo “Ade e Persefone”, una personale interpretazione del celebre atto mitologico. Racconta l’incontro tra due esseri, del mondo di sopra e del mondo di sotto. Ade il Dio degli inferi, Persefone, figlia di Demetra, la dea della creazione, della primavera. Come sappiamo lei è condotta con forza negli inferi da Ade perdutamente innamorato di lei. Inizialmente Persefone non accetta questa scelta, viene sentita come un’imposizione, una scelta forzata e obbligatoria. Ma con il tempo comincia in lei una sorta di adattamento. Ma fuori c’è bisogno di lei, perché la Natura sta morendo e viene ricondotta nel mondo reale con un melograno di cui assaggia qualche chicco. Commette un grave errore. Non avrebbe dovuto assimilare nulla proveniente da un mondo di morte. Scoperto il danno, viene stabilito che avrebbe condotto la sua esistenza sei mesi nel mondo reale, sei mesi negli inferi. Da qui nasce la scissione e il susseguirsi delle stagioni. La mitologia mi affascina molto perché ti offre una spiegazione concreta, e meravigliosa, di come effettivamente la natura si suddivida e allo stesso tempo sia in grado di rinnovarsi in continuazione. A me piace moltissimo la natura e i suoi mutamenti, è un elemento a cui mi sento fortemente legata. Se osservi con attenzione ciò che avviene in natura, puoi comprendere tutto ciò che accade e si trasforma nell’essere umano: il pieno e vuoto delle stagioni è il pieno e vuoto della vita. Così come in alcuni momenti si avverte un sentimento di paura, come avviene in un tuono improvviso, una scossa di terremoto.
D. L’uomo ha bisogno che la natura cambi….
R. Si ha bisogno del suo continuo rinnovarsi, l’uomo ha necessità di questo. Noi abbiamo bisogno che ciclicamente qualcosa finisca o torni per poi ricominciare e rigenerarci. Ma questo non dovrebbe avvenire in modo fine a sé stesso e sempre uguale.
D. Come l’arte? L’arte non può essere referenziale…
R. Assolutamente no. Anche qui deve avvenire una sistematica alternanza tra pieno e vuoto. In alcuni momenti un artista può essere creativo e totalizzante, allo stesso modo, ci sono momenti in cui anche l’anima è a riposo e con essa tutto ciò che viene fuori. Se hai l’occhio e il cuore allenato ad osservare un’opera d’arte, capisci bene se l’autore si trova in un momento fortemente creativo e vivace, pieno di vita, o se vive un momento spento o di dolore. Questo ultimo aspetto non significa che possa essere meno affascinante: nel rappresentare il dolore ci vuole coraggio e anche una sorta di dignità nel saperlo rappresentare.
D. Possiamo dare alla tua pittura la definizione di coraggio?
R. Senza dubbio. Il coraggio, che può anche mettere in discussione i nostri limiti, è una grande forza.
D. Perché quando dipingi ti senti più coraggiosa?
R. Io quando dipingo non mi sento. Non ho necessità di percepire il mio stato se non stare con ciò che sto realizzando e che prende forma sulla tela. E poi mi emoziono, e allora comprendo di trovarmi nel posto giusto.
D. La tua pittura è veloce? O è legata ad una lentezza meditativa?
R. La mia pittura è pura velocità, è una pittura di necessità, che inizia e finisce in un arco di tempo e che non va ripresa. Per questo motivo alcune delle mie opere possono sembrare incompiute, ma non per me. Sono compiute perché è finito quel momento, ho detto quello che dovevo dire e per me quella forma ha una fine.