Contemporary Art Magazine
Autorizzazione Tribunale di Roma
n.630/99 del 24 Dicembre 1999

Arte programmata. Opera moltiplicata. Opera Aperta

Un racconto sulla mostra del 1962 nel negozio Olivetti di Milano
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E’ il 15 maggio del 1962 e per l’esattezza ci troviamo nella Galleria Vittorio Emanuele di Milano. Il negozio è molto grande, due ampie porte a vetri e in alto ogni lunetta nera presenta l’insegna a caratteri computeristici a noi ormai noti: “Olivetti”. Già, non un museo o galleria, bensì un negozio di prodotti industriali per la comunicazione: macchine da scrivere e primi sistemi programmatori. 

Al di fuori c’è una discreta folla, tutti pronti ad assistere a qualcosa di nuovo e curioso. Già, perché in questo martedì di maggio, Bruno Munari e Giorgio Soavi, invitano il pubblico alla prima mostra di Arte Programmata in Italia. Bruno Munari, artista poliedrico impegnato già dalla fine degli anni Quaranta nella ricerca e definizione dell’arte cinetica (ricordiamo la pubblicazione nel 1952 del “Manifesto del Macchinismo”). Giorgio Soavi intellettuale, giornalista, scrittore, poeta, amico fraterno di Giacometti. Chiamato agli inizi degli anni Cinquanta da Adriano Olivetti per dirigere la rivista “Comunità”, per poi assumere negli anni Sessanta il ruolo di consulente artistico dell’Ufficio Pubblicità dell’azienda.

Entrambi, come si evince dal catalogo della mostra, elaborano un progetto aziendale al fine di elaborare una “ricerca di nuovi mezzi e nuove forme di comunicazione visiva all’interno di promuovere la conoscenza delle più recenti esperienze svolte in questo campo da gruppi di giovani artisti in ogni parte del mondo”.

E’ una mostra itinerante: dopo l’inaugurazione di Milano, verrà riproposta nel negozio di Venezia in Piazza San Marco, in quello di Roma in Via del Tritone, per poi approdare in molte gallerie europee fino alla sua presentazione negli Stati Uniti presso lo Smithsonian Institut. L’azienda Olivetti, si impegna a promuovere le opere e gli artisti, pubblicare il catalogo, scegliere accuratamente i propri locali da mettere a disposizione, così da offrire alla nuova arte la massima visibilità e diffusione.

Alla mostra partecipa il milanese Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gabriele de Vecchi, Gianni Colombo e Grazia Varisco, il Gruppo N formatosi a Padova (Manfredo Massironi, Alberto Biasi, Ennio Chiggio,Toni Costa, Edoardo Landi), Enzo Mari e lo stesso Bruno Munari.

L’arte programmata, le cui origini risiedono in Francia e precisamente con il Gruppo GRAV di Julio Le Parc e François Morellet, in poco tempo diventerà in tutta Europa un fenomeno molto diffuso. Ricordiamo dalla Germania il Gruppo Zero e Effekt a Monaco, il Gruppo Uno a Roma, a Rimini si forma il Gruppo V poi diventato, nel 1968, Gruppo di ricerca cibernetica, il Gruppo Mid di Milano e il Gruppo ’57 in Spagna.

E’ un’arte, quella cinetica e programmata, il cui intento, attraverso la sperimentazione scientifica, risiede nel mettere in discussione i dettami dell’arte contemporanea e soprattutto superare la stagione della pittura Informale ormai giunta al termine.

Una componente fondamentale è senza dubbio il movimento: sono opere che cambiano il loro aspetto perché sollecitate da supporti meccanici o da fonti luminose da cui scaturiscono effetti ottici e illusori. Non esiste più l’inamovibilità dell’oggetto d’arte. Se in passato lo spettatore sceglieva il suo punto di vista attorno alla scultura, l’aspetto innovativo dell’arte cinetica e programmata risiede nel offrire all’oggetto d’arte una propria e indipendente autonomia motoria.

Le opere sono realizzate con materiali industriali, il vetro, la plastica, il metallo, la gomma, le pellicole sintetiche e trasparenti, il ferro: elementi giocati, sperimentati e analizzati su campi magnetici, elettrostatici e superfici estroflesse. Acquisiscono il loro spazio in una determinata scansione temporale e possono mutare all’infinito. E ovviamente, appartenendo ad un ambito industriale, sono riproducibili. Con l’Arte programmata l’artista diventa una sorta di tecnico-scienziato. Lavora in laboratorio ed esclusivamente in gruppo. Condivide quindi le prove di sperimentazione in un contesto di continuo scambio collettivo. Non è più il tempo dell’artista genio isolato in bottega che realizza opere uniche e irripetibili, piuttosto del gruppo che fa prove di laboratorio, si confronta sui risultati ottenuti, al fine di dare vita ad un’opera riproducibile e aperta.

Lo spettatore è parte integrante dell’opera perché coinvolto in un continuo gioco ottico percettivo, ma soprattutto è invitato, con i propri sensi, ad una partecipazione attiva sia del meccanismo che del programma alla base del quale risiede uno specifico processo razionale.

Ma l’arte ha sempre cercato di rendere partecipe l’osservatore e renderlo parte integrante dell’opera. Per secoli la pittura si è servita di innumerevoli trovate ingegnose e giochi prospettico-illusionistici. Fino ad arrivare agli inizi del dopoguerra, alla leggerezza de Mobiles di Alexander Calder, dove la distanza tra l’opera e lo spettatore è totalmente azzerata, Queste sculture, che girano e si muovono in autonomia nell’aria, liberano l’oggetto d’arte dalla staticità della tela o del piedistallo, per esplorare una quarta dimensione spazio-temporale in cui il visitatore è parte di un gioco ottico-percettivo. 

E’ tutto nuovo, è tutto diverso, parte integrante del boom economico degli anni Sessanta. Ma non tutti sembrano capirla. A pochi giorni dall’inaugurazione si legge in un articolo pubblicato sull’Espresso il 14 ottobre del 1962: “Roma. Palle metalliche, palle a mano, palle aggrovigliate, palle elettriche, palle cangianti: Giorgio Soavi è là in mezzo che spiega, manovra, preme bottoncini, pulsanti e manovelle. E le palle si muovono, rimbalzano, saltano. Siamo alla mostra dell’Arte Programmata, aperta la settimana scorsa al Negozio Olivetti in via del Tritone”. (s.n., Soavi alla Olivetti dimentica la figlia-cane, in “L’Espresso”, 14 ottobre 1962)

Ma Bruno Munari risponde prontamente: “Possibile che abbiate visto solo le palle? Forse perché molti oggetti, a causa del vetro, riflettevano l’immagine dello spettatore?” (Bruno Munari, in “L’Espresso”, 21 ottobre 1962).

Ma come spesso sappiamo, il pubblico dell’arte ha sempre bisogno di un certo tempo per abituarsi alle novità. E’ celebre la prima volta di Henri Matisse, André Derain, Maurice de Vlaminck al Salon d’Automne di Parigi del 1905. Il critico d’arte Louis Vauxcelles li definì cage aux fauves”, aggiungendo la celebre frase “Ecco Donatello fra le belve!”. O pensiamo alla prima nel 1907 della tela Les Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso, o ancora, al coraggio di Palma Bucarelli nel presentare Grande Sacco di Alberto Burri nel 1959. La definirono “Palmina degli stracci”, “l’Amazzone delle croste”. 

Grazie ad un piccolo cortometraggio realizzato dagli Studi di Monte Olimpino nel 1963, possiamo assistere alla reazione del pubblico alla mostra di Milano del 1962. In questi sedici millimetri si vedono i volti incuriositi di fronte alle mutazioni materiche di Davide Boriani del Gruppo T: “Superficie Magnetica”, una struttura tonda composta di elementi plastici all’interno della quale sono stati inseriti grumi di polvere di ferro. Sul retro, elementi meccanici muovono alcuni magneti così da formare sulla superficie imprevedibili forme astratte e mutabili.

Si vede poi, una bimba con tanto di vestito a fiori della festa, fiocco in testa e orsacchiotto che guarda incuriosita le “Nove sfere in colonna” di Bruno Munari. Nove sfere di materiale plastico trasparente, roteanti e tenute in colonna da tre cristalli verticali. Si muovono in senso orario e antiorario, sono attraversate dalla luce, creano ombre, sono in continuo lento movimento.

Altri, osservano con stupore la “Strutturazione fluida” di Gianni Colombo. E’ una scatola trasparente che sostiene un nastro mobile. Una carrucola nascosta nella parte inferiore dell’oggetto muove la cinghia in modo continuo: la estrae da un punto, la ingoia in un altro. Ed ecco curve continue in un flusso morbido e ipnotico.

Ed ecco una donna di fronte al “Rilievo ottico-dinamico” del Gruppo N. Su di una superficie quadrata bianca sono disposti una serie di segmenti neri metallici. Sono posti equidistanti l’uno dall’altro, ma fuoriescono dal quadro in varie direzioni. L’immagine subisce continue variazioni di forma. Con un gesto spontaneo la donna accarezza gli elementi aggettanti, li afferra e li tira in giù. La distanza tra l’opera d’arte e lo spettatore è decisamente azzerata.

Enzo Mari invita lo spettatore in uno spazio buio dove luci colorati ad intermittenza irregolari danno vita a giochi di forme geometriche e infinite combinazioni cromatiche. Il pattern in movimento è ipnotico, coinvolgente e suggestivo.

Giovanni Anceschi, sempre del  Gruppo T, propone i suoi “Percorsi fluidi orizzontali”. All’interno di un parallelepipedo inserisce un numero programmato di tubi trasparenti e flessibili nei quali scorrono liquidi da destra a sinistra. L’occhio li segue nel loro infinito movimento.

Grazia Varisco presenta una proiezione dal titolo “9x9xX”. Uno spazio quadrato di luce blu, vede l’alternarsi di rettangoli e quadrati che si inseriscono dai lati orizzontali e verticali della superficie. Movimento ed energia nel ritmo elettronico delle forme.

E davanti all’opera di Gabriele De Vecchi? Si intitola “U.r.m.n.t.” ed è un telaio traforato dentro cui è un foglio di gomma che si flette in continuo movimento perché spinto da un motore elettrico collocato sul retro.

Si evince da queste immagini l’aspetto innovativo di una poetica che studia il presente ed è allo stesso tempo proiettata verso il futuro, perché, “Quando l’arte è viva, cambia i suoi mezzi di espressione per adeguarsi ogni volta alla mutata sensibilità dell’uomo”. Così si legge nella prima schermata di questo prezioso video.

La nuova Arte è programma, calcolo, razionalità. L’interesse per il meccanismo e processo ottico- percettivo, rende l’Arte Programmata, un’“Opera Aperta”, come si evince dal sottotitolo della mostra nel negozio Olivetti. Aperta perché il movimento generato non è univoco, bensì in continua mutazione. Così come lo è il suo aspetto ottico-percettivo. Giulio Carlo Argan non a caso, la definì Arte Gestaltica, dal tedesco Gestaltpsychologie, ovvero psicologia della forma.

Allo stesso tempo, Lea Vergine ne legge un: “Tentare una scienza dell’arte…e che il progetto dell’opera è l’opera d’arte indipendentemente dalla sua realizzazione”.

Nel testo di presentazione al catalogo della mostra Olivetti, Umberto Eco la definisce: “…un’esigenza di rottura degli schemi percettivi”…“per proporre altri modi di formare, altre possibili configurazioni del reale”, e ancora “allargare all’uomo contemporaneo il campo del percepibile e del godibile”.

In un tempo davvero breve, l’Arte Programmata vivrà una velocissima stagione di fortuna.

Non a caso, il volume dell’Almanacco Letterario Bompiani pubblicato nel 1962, è dedicato completamente ad un’analisi e presentazione dell’Arte Programmata-cinetica e dei suoi rappresentanti. La copertina realizzata da Bruno Munari presenta inoltre il sottotitolo “Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura”.

Oltre la pittura, oltre la scultura, oltre “l’Informale”, come recita il sottotitolo della III Biennale di San Marino del 1963. In questa occasione espositiva venne proclamato il successo dell’Arte Programmata e la conferma della nuova tendenza: il primo premio infatti venne conferito sia al Gruppo N che al Gruppo Zero. Nel 1964, in occasione della 32ª Biennale di Venezia, vennero dedicate due sale alle mostre personali del Gruppo T e del Gruppo N. Nello stesso anno, la Documenta di Kassel celebra le opere del Gruppo GRAV, fino ad arrivare al 1966 quando Julio Le Parc vincerà il Primo Premio di Pittura alla 33° Biennale di Venezia.

Purtroppo già dal 1964 si comincia ad annunciarne il declino.

Lea Vergine ne dà una  completa motivazione: “La Programmata non fu distrutta e disgregata dai suoi oppositori ma, fatte salve le solite eccezioni, dai suoi sostenitori (critici, giornalisti , mercanti) che ne equivocarono gli intenti, da coloro che parlavano di scientificità laddove sarebbe stato giusto parlare di congetture, di qualcosa che precede pesino la formulazione di un’ipotesi e da quei paladini che, dopo averne utilizzate tutte le opportunità più effimere, minarono definitivamente la credibilità della tendenza, riducendo a ciarpame da luna park quello che era nato con intento rivoluzionario. Dunque, non si estinse perché troppo politicizzata o troppo rigorosa o rigorista, come si disse da più parti, ma perchè non lo fu abbastanza”. (in Lea Vergine “L’arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990”)

Nel 1966 Gillo Dorfles, puntualizza che che ben poche di queste opere hanno mantenuto la loro “freschezza” e il loro interesse. Il più delle volte, sopito l’effetto di curiosità e di sorpresa giocosa che il nuovo esperimento creava, il risultato finale era costituito soltanto da una sensazione di noia. In altre parole: non basta la semplice “trovata” cinetica o ottico-percettiva a rendere significativa l’opera […]. 

Senza dubbio vero, ma in questa breve fase dell’arte contemporanea, a mio avviso, credo vadano lette moltissime delle ricerche e delle tendenze del momento. Oggi i sistemi informatici degli anni Sessanta, sono superati da software di ultima generazione, proponendo nuove dimensioni in cui risiede l’intelligenza artificiale, l’arte generativa, la cryptoarte e il tanto discusso metaverso. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso, eliminare il più possibile la distanza spazio-temporale tra lo spettatore e l’opera d’arte: un’esperienza di totale coinvolgimento emotivo, psicologico e un continuo sollecitamento ottico-percettivo.

Mi piace concludere con una sorta di premonizione di Umberto Eco tratta dal catalogo Olivetti del 1962: “Non sarà dunque impossibile programmare, con la lineare purezza di un programma matematico, “campi di accadimenti” nei quali possano verificarsi processi casuali. Avremo così una singolare dialettica tra caso e programma, tra matematica e azzardo, tra concezione pianificata e libera di accettazione di quel che avverrà, comunque avvenga, dato che in fondo avverrà purtuttavia secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini e delle direzioni possibili”.

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15 Febbraio 2022

Alessandra Caponi

Alessandra Caponi nasce a Roma nel 1981. Dopo la laurea in Storia dell’Arte Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tre, si specializza sull’arte degli anni Sessanta a Roma. Collabora con Gino Marotta per cinque anni nella gestione dell’archivio e organizzazione delle mostre. Lavora con collezionisti privati nella realizzazione di archivii cartacei e digitali. Recentemente ha scritto il testo critico “Committenza pubblica e privata: cinema, teatro, arredamento 1940-1958” in occasione della mostra Leoncillo. Materia radicale presso la Galleria Lo Scudo di Verona. Vive e lavora a Roma.

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