Nella tua ultima serie, La Natura Inquieta, i tasselli molecolari, identificativi della tua poetica, hanno cominciato a muoversi…
Se devo essere sincera, credo che i tasselli con cui compongo i miei lavori, abbiano sempre avuto una componente cinetica. Il movimento del tassello è nato per un errore, che ha provocato un’instabilità. L’avevo notato da tempo, stavo solo cercando di trovare la giusta modalità per dargli forma e vita. La pandemia mi ha dato molto tempo per sperimentare e mettere in campo nuove soluzioni, così ho pensato di accostare all’opera una fonte di aria per far muovere i tasselli sulla superficie. Ho immaginato il senso del movimento come se fosse elemento naturale: il tassello è analogico e si muove leggero, può avvenire con un flusso di aria calda, o fredda, come una sorta di sciame…come le foglie sugli alberi che si muovono in maniera indipendente. Crea anche un suono, un sibilo, il canto dell’opera. Le mie opere hanno così anche maggior autonomia: decidono indipendentemente quando muoversi, cambiando aspetto.
Lo spettatore è quindi parte integrante di questo gioco ottico-percettivo?
Il pubblico è invitato ad avvicinarsi e allontanarsi, così da sollecitare la retina a sintetizzare le immagini per fonderle in modo omogeneo. Lo spettatore è quasi costretto, e per me questo è un fattore che conta molto, a prendersi un momento per osservare e tornare a quello stato di contemplazione che purtroppo stiamo perdendo. Parto sempre da uno scatto fotografico, una volta scomposti in tasselli, l’immagine diventa pura astrazione, una molecola. Il mio ruolo non è quello di spiegare a quale dettaglio fotografico corrisponda ogni parte, è lo spettatore che è invitato ad osservare e definire, se lo vuole, un elemento corrispondente alla realtà.
La Natura Inquieta presenta inoltre un’interessante ricerca pittorica
Sono parti pittoriche frutto di studi sul colore e sui materiali industriali. Ho lavorato con guaine, resine sintetiche su acrilico, pigmento puro, una commistione di elementi. E’ una superficie che presenta un notevole strato di pittura, è molto materica. La scelta di queste soluzioni pittoriche mi permette di dare vita a effetti specchianti, alternati a superfici più dense e fare in modo che la luce giochi un ruolo diverso rispetto ai tasselli collocati attorno.
Da cosa deriva il titolo La Natura Inquieta?
Questa serie nasce in piena pandemia. Sono giunta al movimento, alla pittura. Per la prima volta nella storia contemporanea il mondo si è fermato all’unisono, la Natura ha respirato. Per la prima volta un grande evento ci ha coinvolto tutti. Ascoltiamo spesso eventi drammatici al tg, a volte sono dinamiche lontane da noi, e vengono percepite con distacco. Questo evento al contrario tocca te, tocca tutti. Dal punto di vista quasi primordiale ha smosso qualcosa di primitivo, poiché ha minacciato l’intera umanità e quindi le nostre certezze. Noi viviamo in una società che ci comunica costantemente il “pensare positivo”, con il fine di indurci ad innalzare le nostre prestazioni per renderci produttivi, con l’effetto di assopire i nostri reali bisogni e mettendo a tacere quei sentimenti considerati illeggittimi. Ma proviamo a guardarci dentro. Per quanto mi riguarda la verità sull’evoluzione del nostro essere risiede nella nostra Natura Inquieta, nel porre attenzione alla molteplicità di sensazioni anche molto contrastanti che animano il nostro mondo interiore. Per recuperare un sentire autentico. E’ quindi, per me, un elogio all’inquietudine dell’animo umano che può condurci ad uno stato di meraviglia. Basti riflettere sul termine greco “thauma”, che nel suo significato originario è associato al termine “terrore”, o “angosciante stupore”. Bisogna interrogarsi, ascoltare i propri stati emotivi e il nostro profondo inquieto e propri da qui ripartire per poter evolvere. E’ una ricerca molto profonda, che prende in esame anche il concetto di morte, in termini di trasformazione della materia stessa. Questa molecola che vibra, il corpo che si fa pura astrazione, ritorna alla natura e torna alla stratificazione della terra, alla sedimentazione millenaria. La pittura quasi cellulo-molecolare, astratta, ci fa riflettere su come la Natura, con tutte le sue manifestazioni, non ha mai un aspetto univoco, bensì è in continuo cambiamento. E’ un omaggio all’inquietudine indirizzato a quello stato di meraviglia attraverso un movimento perturbante, che ci smuove, e che va oltre a quell’apatia che ci tiene fermi e a cui inconsapevolmente la società ci ha abituati. Credo sia più comoda la condizione “dell’andare avanti”, mentre sarebbe necessario tornare a un grado zero e interrogarci.
E’ senza dubbio un lavoro frutto di molte sperimentazioni e riflessioni. Ma in che modo ha avuto origine la tua ricerca? E’ un percorso che parte da lontano?
Da dove cominciare…Sin da bambina sapevo che avrei fatto questo. Mio padre era un fotoamatore, all’età di otto anni mi regalò una macchina fotografica analogica, una Minolta. Mi spiegò il funzionamento e in poco tempo cominciai a scattare foto così da creare un primo diario visivo. Dentro di me c’era una predisposizione alle arti, al disegno, alla pittura. Insomma, sin dall’inizio la direzione era quella e allo stesso tempo tutto ciò mi sollecitò nel pormi i primi quesiti sul mondo che mi girava intorno. E quindi ho frequentato l’Istituto d’Arte e poi l’Accademia delle Belle Arti a Roma. Nel corso di questi anni ho fatto molte ricerche per capire cosa mi interessasse e ho approfondito specifiche tematiche. Sono stata sempre interessata ai vari aspetti dell’arte. Per questo, da bimba ho studiato danza, e nel corso degli anni mi sono dedicata anche alla regia e al video. All’Istituto d’Arte studiai il mosaico. L’ho portato avanti per molti anni, cercando di coniugare sia lo studio classico che le composizioni legate all’ambito contemporaneo. Ci lavorai tantissimo, sperimentando nuove soluzioni, nuovi innesti. Al tempo tra l’altro collaboravo anche con alcuni architetti per la realizzazione di mosaici su commissione. Quindi all’interno di un percorso fatto di mosaico, danza, fotografia, pittura, ho cercato e trovato nel corso del tempo un linguaggio che mi appartenesse. Il tempo mi ha permesso di fondere queste attitudini e soprattutto sperimentare il più possibile, fino a che il mio lavoro è arrivato a una sintesi.
Possiamo dire che il tuo lavoro parta da una matrice fotografica?
Assolutamente. Attingo spesso al mio archivio fotografico, scatti personali realizzati negli anni: è una memoria visiva, un personale repertorio. Una preziosa fonte di cui mi servo a seconda del senso e della forma che voglio dare al mio lavoro. Per esempio, l’installazione SANDCLOUD (esposta da settembre 2018 a giugno 2019) nell’Ex convento di San Domenico a Taranto, è stata realizzata assemblando molte foto di cieli che ho immortalato nel corso dei miei viaggi nel mondo. Il concetto che risiede alla base dell’opera è rendere tangibile l’intangibilità del cielo, concetto effimero per eccellenza. Il cielo è composto di innumerevoli elementi privi di consistenza, ma ricchi di effetti luminosi e cromatici. L’idea alla base dell’opera era quella di portare il cielo in terra, poiché di fatto metaforicamente parlando rappresenta la sede dei nostri sogni, il luogo del pensiero ancestrale, da sempre fonte d’ispirazione per filosofi, avventurieri e scienziati.
SANDCLOUD può essere definita un’opera di Land Art?
Si certo. In questo caso i tasselli sono più grandi così da essere adattati al paesaggio inoltre l’installazione è progettata ogni volta in maniera tale da adattarsi al luogo, inglobando gli elementi naturali che lo compongono. E’ un’installazione che ho esposto in due occasioni in spazi esterni, (altre volte in spazi al chiuso) e in entrambi i casi ho voluto che fosse collocata in modo da essere vista da duplici punti di vista. L’ho montata negli Orti Sallustiani in un giardino e quindi godibile sia dall’interno del giardino, che dalla strada superiore (essendo uno scavo antico si trova al di sotto del livello della strada) e in seguito presso l’Ex Convento di San Domenico a Taranto all’interno del chiostro. In entrambi i casi lo spettatore poteva vederla sia dal piano terra e quindi entrando nell’opera, oppure salire una scala e osservarla da una finestra, quindi dall’alto. Questa duplicità espositiva mi ha suggerito uno spunto riflessivo sul binomio tra micro e macrocosmo: essere fisicamente nell’opera ma allo stesso tempo osservarla nella sua molteplicità, da vicino o a distanza.
E’ già un gioco ottico-percettivo…
Esatto. Come ho detto nella prima risposta, i tasselli della composizione si sono sempre mossi, anche dal punto di vista concettuale che ipotizza una certa dinamicità della molecola stessa, data anche dalla leggerezza dei materiali. Come avvenne nell’installazione Florilegio esposta nella Galleria Emmeotto a Palazzo Taverna nel 2019. Ho realizzato un percorso ottico sensoriale di fiori in oscillazione. Il pubblico era invitato a percorrerlo e perdere la cognizione del tempo (soprattutto attraverso l’aspetto sinestetico dato dalla profumazione dei bulbi). O meglio, rallentare quel tempo che normalmente non ci prendiamo. Quando partecipiamo ad un evento, una fiera, siamo quasi fagocitati dalle immagini: non ci prendiamo la giusta dimensione per osservare attentamente.
Immagino che il tuo lavoro implichi una certa lentezza.
Assolutamente. Nella realizzazione c’è una componente meditativa che per me ha una grande importanza. Il mio è un procedimento minuzioso. Come abbiamo detto si parte da una matrice fotografica che amo trasformare come se fosse una materia pittorica. I tasselli vengono stampati su Pvc fotografico con delle cotture particolari studiate e sperimentate nel corso degli anni. Poi avviene l’intaglio dei tasselli, che possono assumere diverse forme, la preparazione degli aghi e il loro spillaggio e infine la fase di assemblaggio. Ma alla base del tutto c’è un lento percorso di ricerca intellettuale e questo perché secondo me l’arte non è mai fine a se stessa.
I tasselli assumono hanno diverse forme …
Nell’ultima serie sono dei tondi, ma sono stati anche dei poligoni.
Anche fiori se non sbaglio
Si ho presentato i fiori in due occasioni espositive. La prima volta al MAAM di Roma con l’opera When the Flowers are gone nel 2013. Si trattava di un’opera site specific, pensata esattamente per quella stanza e realizzata con gli abitanti dello stabile occupato. Abbiamo tagliato insieme i fiori e in quell’occasione l’intento era di dare forma ad una sorta di giardino segreto. Era una piccola stanzetta, lo spettatore era invitato a cercarla e scoprirla. I fiori sul muro formavano una sorta di ingranaggi perché ho pensato di concepirla come il cuore del MAAM: un meccanismo di fiori che davano vita ad un grande movimento. Anche in questo caso la selezione dei fiori è stata recuperata del mio archivio fotografico. Questo progetto inoltre, è stato riproposto in un laboratorio al Dynamo Camp di Limestre, vicino Pistoia. Si tratta di una Onlus che realizza laboratori didattici durante un campus estivi in collaborazione con gli ospedali pediatrici coinvolgendo i bambini con differenti patologie. All’interno c’è un museo in cui gli artisti sono invitati a realizzare in loco le opere. Per dieci giorni ho lavorato con circa novanta bambini: abbiamo realizzato sei opere e un’enorme installazione. Sulla scia di SandCloud abbiamo realizzato dei tasselli con il tema del cielo e dei fiori come nel lavoro al MAAM.
Insomma è chiaro un tuo dichiarato amore per la natura, che sia cielo, luce, fiore …
Il mio linguaggio, la poetica con cui sono concepiti e “sentiti” i miei lavori è tutto un omaggio alla forza creatrice della natura, per questo motivo ho realizzato una serie dal titolo Biophilia. Questo concetto chiave è la colonna portante del mio lavoro. Nasce dall’osservazione e dalla relazione tra uomo e natura. Tutto il mio lavoro verte su questa profondissima relazione assumendo, attraverso il mio linguaggio espressivo forme differenti. Lo stesso avviene nella serie Fragmenta, dove c’è la volontà di superare i confini del corpo. Spesso infatti, i confini del nostro corpo sono gli stessi che ci ingabbiano in schemi prestabiliti. Poichè il corpo è il luogo dell’identificazione sociale, ma anche degli stereotipi culturali e di genere: dove spesso si insedia la percezione assoluta dell’Io creando un rapporto monodimensionale del mondo, che spesso ci ingabbia.
La nostra società ci identifica attraverso il nostro aspetto estetico e ci dice che siamo ciò che facciamo, mentre dentro di noi vive una molteplicità di attitudini e sensazioni. In Fragmenta c’è un’approfondita analisi del corpo, della pelle, dell’epidermide. Il messaggio è di voler scendere nel profondo del corpo per aprirlo come un’immagine simbolica, così da espandere i propri confini e ritornare all’origine del tutto. E’ un tutto che ci rimanda alla Natura, ma soprattutto al suo rapporto empatico con l’uomo e di quest’ultimo con i suoi simili.
L’immaginario figurativo del tuo repertorio subisce un lirico processo di frammentazione, quasi molecolare, come ha avuto inizio questa scomposizione?
L’effettivo risultato di questo processo si riscontra nella produzione che va dal 2010 circa. Ma in realtà è avvenuto tutto prima. Si passa una vita a cercare un proprio linguaggio espressivo, pensi di averlo trovato e di aver messo un punto. Ma spesso mi succede di guardare indietro e nel farlo recuperare le ricerche svolte in passato: già nelle prime esperienze, trovo riscontro di elementi e suggestioni che poi hanno dato vita ad opere successive. Ho molti progetti datati circa quindici anni prima in cui risiede già quella concezione di frammentazione molecolare messa in atto in Fragmenta e in altre serie. Nel corso del tempo, ho capito che tutte quelle percezioni erano già dentro di me, erano parte di me. Ho trovato un linguaggio specifico per tirarle fuori. Noi abbiamo già tutto dentro, va solo fatto emergere donando una forma.
Fragmenta è nuova interpretazione del ritratto, come scegli i tuoi soggetti?
Sono persone che conosco, che mi colpiscono per strada, o che mi chiedono di essere ritratti. Il soggetto femminile è quello che prediligo, come metafora della natura. Per me è una componente molto importante. Per esempio portai a New York una mostra personale dal titolo “Oltre i confini del corpo”, il percorso espositivo era incentrato sulla forza delle donne con l’intento di raccontare, attraverso le immagini, le loro diversità. Per questo avevo scelto donne di diverse tipologie, e diverse estrazioni sia sociali che culturali.
Hai degli “amori” nella storia dell’arte?
Amo molto i ritratti Egon Schiele, per la loro violenza pittorica ed emotiva, e di tutt’altro genere, gli assemblaggi di Robert Rauschenberg. Uno sguardo al loro lavoro l’ho sempre avuto.
Il ruolo della luce nel tuo lavoro?
La luce è un fattore decisivo nel mio lavoro, ma lo è ancor di più l’ombra che viene generata. L’ombra modifica l’opera stessa e a seconda della luce che colpisce il tassello, lo moltiplica o lo sottrae. Lo spettatore è coinvolto in un gioco percettivo di moltitudine o di sintesi. Per questo motivo mi piace pensare ai miei lavori come quadri-sculture. Lavoro su frammentazioni molecolari in cui il mio intento di scomporre l’immagine, è strettamente legato alla volontà di non volerne svelare in modo esplicito il significato. L’immagine si frammenta e diventa astratta.
Quindi nel tuo lavoro possiamo parlare di astrazione? Come si coniuga con il concetto di Biophilia da cui è tratta una tua importante serie?
Astratto significa comunque “tratto da”. E’ un passaggio che a mio avviso è più vicino ad una metamorfosi, e questo concetto mi ha permesso di dare ancor più senso al lavoro sulla Biofhilia. La Biofhilia va concepita come la fascinazione che ha l’uomo trovandosi immerso nella natura: attraverso codici non codificati, come molecole, odori e sensazioni, l’individuo recupera dalla natura un senso di benessere. Le ultime ricerche sul tema hanno sottolineato come questa sensazione di benessere può essere sollecitata anche dall’artefatto umano, in particolare da strutture architettoniche, oggetti di design che rimandano alla natura e ai suoi aspetti. E questa soluzione progettuale potrebbe aiutare l’uomo alla ricerca del benessere. Solitamente viviamo in città in cui domina un forte individualismo, che non aggrega e allo stesso tempo esclude la natura. Abbiamo creato periferie di cemento senza linguaggio corale, dove non c’è una relazione simbolica con il nostro mondo. Noi veniamo dalla Natura e li torneremo. Senza la Natura viviamo in una dimensione di non-luoghi, dove l’uomo ha la sensazione che manchi sempre qualcosa. E’ quasi doveroso, soprattutto in questi tempi, recuperare la parte più profonda di noi ed elevarla alla bellezza.
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